[Oggi propongo il testo centrale di un poemetto ‘impiegatizio’ tentato nel lontano 2006 e lasciato cadere non molto tempo dopo, sia per lo scollamento fra esperienza e scrittura, che allora mi frenava di più, sia per l’effettivo anacronismo del tentativo. Buona lettura, a ogni modo]
Retroscena d’ufficio Un bianco neon non innocenza. Uno non uno qui ma numero sbiadito nel dettaglio del suo compito, al profilo imperioso di targhette timbri plichi cartelle d’assoluta nettezza al sommo dei bureau. Preciso e sfumato, non conta: computa profitti punti giorni angustie perdite. (E quelle labbra stilizzate inclinano d’un tratto all’incursione di addendi di dolore: debiti, corse, il mutuo mancarsi l’uno all’altra, un credersi non visti quando scansa lei tra spigoli domestici e rimozioni... dove tirate le somme sul tardi gli resta sul tavolo un bilancio di sottrazioni, di manchevolezze non più bambine, perdite, perdite). Perdite. “Io non l’ho voluto” làncina il bianco una voce cui è vietato il pianto, a punta di lacrima rompe, se ne turba un attimo il timbro ma subito si spiana, in fretta anonimo lo sincronizzano a una sintesi a un bianchissimo unisono a una simbiosi concitata e mortifera col ritmo dell’altro che ossesso insiste sulle pratiche e un tempo a cerchio imprime. (È una morte minore, compenetrata nei minuti, nei precisi atti, nei retroscena della loro percezione quando è amara e siede più indietro, o morte diluita in anni, in lustri di litania che la lingua presto impara e le mani).