Se non c’è direzione

 
[Continuano i venerdì delle poesie 'minori', d'archivio o declassate. Questa doveva aprire la mia terza raccolta, tuttora inedita, Doveri di una costruzione, ma poi ho deciso di rinunciarvi. Inizialmente la poesia era composta di haiku inanellati, poi trasformati in distici. Buona lettura]

 
 
Se non c’è direzione
  
  
 Corriera, wifi a strappi.
 Fanno impressione quei pioppi.
  
 Passata la statale 
 delle piscine i gusci verdeacqua. 
  
 Sopra, esteso, dell’altro niente 
 che si riversa in loro:
  
 casale deserto, fallire per sport,
 italia duemilasedici.
  
 Se non c’è direzione, 
 si brevetti la pioggia: sarà lei a... 
  
 fermi tutti, se ci siete, 
 fellow passengers qui
  
 tanto più la penso 
 quanto più manca 
  
 e abbaglia, la 

Analisi di The Hill We Climb, di Amanda Gorman

[Post originariamente pubblicato su facebook il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Joe Biden. La mia analisi è soprattutto di ordine stilistico, e cerca di capire la relazione tra forma e immediato contesto di ricezione. Per un taglio più culturalista e contestuale, vi invito prima a leggere le belle riflessioni sul sito di Marco Bini sullo stesso argomento]

Desidero riprendere uno spunto recente di Mario De Santis circa la poesia che Amanda Gorman ha letto alla cerimonia di inaugurazione di Jo Biden. Semplificando, De Santis vede chiaramente i limiti di una tale poesia secondo l’ottica della tradizione ‘alta’ europea (che rifugge questo ‘noi affermativo e retorico di chi crede nella ‘verità”), ma al tempo stesso si interroga sulla liceità di questi ‘occhiali’, dato che – parole sue – nel testo di Gorman ‘La forza della lingua attingeva in altre profonde o sacre o magiche “phonè” che non sono quelle europee della sibilla greca, della voce del Dio biblico, dell’Io Penso’. Roberto Minardi, in una telefonata recente, mi parlava proprio della difficoltà di noi europei ad apprezzare compiutamente tradizioni ‘altre’ (lui faceva riferimento a quella latino-americana, che a noi sembra troppo naive, spontaneista, e che però assume piena forza nel suo contesto originario). Anche i bei post di Marco Bini e Francesco Terzago concordano sulla valenza politica e sulla pregnanza utopica di tale performance, al di là del discutibile (dal nostro punto di vista) valore letterario del testo.

Io da tecnico, non troppo a mio agio nei discorsi su cultura e ideologia, mi limito a qualche considerazione formale sulla poesia. Anzitutto, è una poesia? Sì, nella misura in cui si presenta e si identifica come tale: rime, alliterazioni e parallelismi non mancano. Se, come ho scritto tempo fa in un post, la poesia ha formalizzazione e significanza, il primo elemento non manca, anche se si tratta di una formalizzazione ‘di superficie’ che non rimodella il mondo che conosciamo, ma si limita a riutilizzare certi schemi e tropi (vd. gli 11 punti elencati sotto). Nemmeno il secondo, a dire il vero: ma la ‘significanza’ qui è pragmatica (valore d’uso di quelle parole in quella situazione), piuttosto che semantica (valore estetico-conoscitivo della rappresentazione stessa), ed è la stessa, insomma, di un discorso (speech). Come i discorsi (nel senso di speeches, non di discourses), sono fortemente dominanti certi tratti stilistici:

1. Noi collettivo, con funzione coesiva (a differenza del ‘noi’ duale o paucale), contro lo schema del noi vs. loro tipica di altre retoriche

2. Metafora concettuale GOOD IS UP, che si concretizza nell’ascesa sulla collina (pensate a Dante che sale il Purgatorio, o al sentirsi ‘su’ di morale). Qui assume particolare pregnanza perché Capitol Hill, luogo dell’insediamento e simbolo della democrazia, include la parola ‘collina’. Devo a Marco Bini l’ulteriore osservazione che, parole sue, ‘la “città sulla collina” è una radicatissima metafora, di matrice bianca e puritana, dell’eccezionalismo americano’.

3. Possibile riferimento intertestuale alla celebre ‘Still I Rise‘ di Maya Angelou (la parola chiave ‘rise’ è in entrambe), testo-simbolo del riscatto sociale e della determinazione della popolazione afroamericana (e delle altre minoranze).

4. Allitterazioni (we have braved the belly of the beast), talvolta quasi paronomastiche (weathered and witnessed, entrambi bisillabi, con implicita equivalenza semantica fra il superare le difficoltà e l’essere testimoni, presenti, o blundersburdens) o da falsa figura etimologica (harmharmony) potenziata da opposta connotazione semantica.

5. Rime interne per l’occhio (purpose-compose)

6. Metafore in apparenza improbabili (gold-limbed hills: colline dalle gambe dorate), che si spiegano come elaborazione del tropo TERRA E’ DONNA (vd. anche Guccini, dove Bologna ha il seno sul piano padano ed il culo sui colli – elaborazione del tropo di cui sopra nel tropo CITTA’ E’ DONNA).

7. Antonimi trattati come equivalenti grazie alla struttura coordinativa e all’allitterazione, in una specie di ossimoro analitico (battered and beautiful)

8. Rime ‘maschili’ (cioè con ictus sull’ultima sillaba), più impattanti: might/right, chest/west (si noti la loro pregnanza semantica)

9. Riferimenti biblici (wine and fig tree) che simboleggiano forza e comunità.

10. Uso di conoscenze generiche, schematiche ancorché vere (a skinny black girl / descended from slaves), senza gravami aneddotici o enciclopedici

11. Uno stile di recitazione chiaro e incisivo: si noti l’intonazione ascendente su we, quella rallentata e scandita su now we assert, o la dizione veloce, esaltata, impaziente, in corrispondenza dell’anafora topica we will rise (con la videocamera che iconicamente punta in alto, per riprendere la bandiera americana).

Insomma, il mestiere c’è, anche se per chi è addentro alla poesia questi sono in massima parte ‘cheap tricks’, effettistica, e il testo è – come ogni buon discorso – ideato espressamente per lo scopo. Mi piace? No, perché sacrifica la sfumatura, la problematizzazione, perché non porta accrescimento esperienziale-cognitivo. Ma parlo con in mente altri poeti, con quel bagaglio europeo richiamato dal post di De Santis all’inizio. Faccio ammenda, prima di chiudere il post, ricordando(mi) che la mia seconda ‘poesia’ di sempre, scritta a 13 anni, era simile a questa in tono, e l’avevo scritta nella speranza di rimediare una lite in famiglia. Quella poesiola esteticamente orribile e pietosa (iniziava con ‘Dimmi, perché barrichi il tuo cuore / dietro a un lucchetto?’ – tutti i meccanismi del pathos melodrammatico, insomma), aveva però un suo perché contingente. Mi chiedo se, con le dovute proporzioni, non si possa dire lo stesso di questa ”The Hill We Climb”.

Incapace di tacere la visione (dialogo-intervista con Roberto Minardi)

Due giorni fa (30/01/21) si è tenuto un dialogo tra me e Roberto Minardi incentrato sul suo ultimo libro, Concerto per l’inizio del secolo (Arcipelago Itaca 2020), seguito dalle domande del pubblico. L’evento ha visto la collaborazione dell’ANILS (Associazione Nazionale Insegnanti Lingue Straniere) Euroest e dell’Istituto Italiano di Cultura di Vilnius. La gestione tecnica è stata a cura di Pierpaolo Bettoni. E’ possibile accedere alla registrazione al link qui in basso, nel canale YouTube dell’autore. Buon ascolto (o… buona visione!).

Incapace di tacere la visione (D. Castiglione intervista R. Minardi) – YouTube

Lei non parlava

[Da oggi, ogni venerdì, pubblicherò mie poesie che ho escluso dai volumi precedenti o che escluderò dai successivi - penso che dopotutto anche alle poesie 'minori' o che non trovano una collocazione nel macrotesto vada data la chance di trovare il proprio lettore. La poesia qui sotto era inizialmente in Doveri di una costruzione, ma poi l'ho espunta insieme ad altre venti o trenta che in questi anni si sono aggiunte ai testi che mi convincevano maggiormente]
 
 con gli occhi chiedevo attracco in un manichino calvo
 ne fissavo l’appariscenza meno disperata
 delle unghie di lei smaltate di rosso blando
 delle dita tozze che all’ombrellino stringono il manico
 commentavo ringhiere liberty fogliami ferrigni 
 per stornare il mutismo che le suggerii con creanza
 come è d’uso fare con gli articoli d’arredamento 

Su un verso di Luzi

Mentre si parla, si è parlato e si parlerà delle sorti della poesia, del sistema poesia, io voglio rintanarmi nell’atomo compositivo. Ci si ricorda a volte di poesie intere, ma più spesso sono frammenti che s’incastonano nella memoria. Così per qualche motivo mi torna spesso in mente un verso di Mario Luzi, “entri nei miei pensieri e n’esci illesa”. Il verso viene da una poesia piuttosto nota, Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (da Primizie del deserto, 1952). La poesia si può leggere per intero su vari siti, come qui.

Non è un caso che a lasciarsi ricordare sia una proposizione, visto che questa è l’unità principe della lingua in generale, una unità con più sostanza psicologica rispetto a una parola o un sintagma. Ma cos’ha di speciale? Non tanto o solo l’andamento ritmico, ché tutta la poesia è composta di endecasillabi. Né strategie retoriche di forte letterarietà che oggi mostrano la loro alta impraticabilità (nella stessa poesia, l’inversione + iperbato “di gelsomino odorano e di frane”, un verso che una decina d’anni fa mi avrebbe attratto terribilmente). Né il fatto che conferisca agenza all’essere pensato, perché la stessa stringa o meglio collocazione “entri nei miei pensieri”, malgrado la metafora concettuale sottostante (I PENSIERI SONO STANZE, LUOGHI CHIUSI), si ritrova tranquillamente, per esempio, in questo forum al femminile (http://amore.alfemminile.com/forum/e-normale-che-quel-ragazzo-entri-nei-miei-pensieri-nei-momenti-di-intimita-fd4286890). Il che, semmai, attesta la modernità dell’emistichio, il suo essere parte di una lingua comune.

Il segreto della memorabilità di questo verso, secondo me, sta in quel “e n’esci illesa”. Non solo o non tanto per il rinforzo fonico della rima (“sospesa” due versi prima). Ma, maledizione, per le sue implicazioni psicologiche, ideazionali. Per il fatto che possiamo immaginare la delicatezza dell’io che pensa l’amica, senza stravolgerla sia pure nei suoi pensieri, cioè nella sfera dove pure potrebbe avere assoluto dominio – dove potrebbe umiliarla, distruggerla, sfigurarla, ucciderla. A mio parere oggi tendiamo a dimenticarci, quando scriviamo, di questo livello sottostante, che porta insieme world knowledge (lo scrivo in inglese ché l’italiano “conoscenza del mondo” è troppo altisonante, mentre in inglese è un termine del tutto descrittivo – c’è differenza fra ‘world knowledge’ e ‘knowledge of the world’ infatti) ed empatia, il leggere nella mente (mind-reading) dell’io poetico che ci rende così partecipi dei propri processi mentali. Ne usciamo elevati, con un’aria alta. Questo permette al verso di accompagnarci più a lungo rispetto alla semplice fascinazione fonica o retorica, che restano tutto sommato in superficie e sono sempre a rischio di virtuosismo. Far entrare questo livello in quello che scriviamo è forse l’unico modo per difenderci dall’epigonismo, dal bello stile (che può anche essere brutto e cattivo, freddo, maledettista, espressionista ecc., e bearsene). Si resta negli altri, forse, rendendosi un po’ più trasparenti.

CORO+MISCHIATO: su una collocazione de-linearizzata in Dante e De Angelis

Secondo la teoria semiotica di Riffaterre (che l’illustra doverosamente), l’intertestualità in poesia si dà spesso in forma de-linearizzata, per cui gli stessi elementi lessicali (e dunque concettuali) possono trasmettersi in combinazione anche se in strutture sintattiche diverse, come se sparigliate dal poeta che altera l’intertesto senza però cancellarlo completamente. E’ il caso della combinazione CORO+MISCHIATO, che ricorre in Dante e, oltre 650 anni dopo, in De Angelis, in un giro breve di versi:

Mischiate sono a quel cattivo coro

de li angeli che non furon ribelli

né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. (Dante)

(Inferno, III, 37-39)

fanno coro 

per confortare

chi è mischiato con il mondo. (De Angelis)

(De Angelis, Le terre)

La probabilità che questa doppia occorrenza sia legata al caso mi pare troppo bassa, visto che queste due parole non sono semanticamente associate o non stanno in tipiche collocazioni nella lingua comune. Questo piccolo esempio mostra piuttosto come funziona quello che Riffaterre chiama “l’inconscio intertestuale” – un processo semiotico che spesso trascende la volontà, s’incista nella memoria a lungo termine che poi si riversa in quella a breve termine impegnata nella costruzione della poesia. Infine, il fatto che tanto in Dante quanto nel De Angelis di questa poesia (Le terre, da Somiglianze) il contesto sia religioso (in De Angelis si accenna alla chiesa, a un prete) potrebbe far venire il sospetto che si tratti di una cripto-citazione piuttosto che di memoria involontaria.

Aggettivazione in poesia

[Questo post, apparso inizialmente su Facebook, è stato ripreso e citato da Gilda Policastro, che ringrazio di cuore, nella rubrica La bottega di poesia de La Repubblica]

L’aggettivazione in poesia oggi tende a essere sconsigliata, probabilmente perché pesa ancora la dottrina modernista (poundiana) che punta alla cosa in quanto tale, e quindi privilegia la minore mediazione del sostantivo per uno stile più definito e asciutto. Gli aggettivi, con il loro statuto relazionale (subordinato ai sostantivi) sembrano annebbiare con un di più di soggettività proprio questa linea tutto sommato retta fra nominazione e cosa. L’aggettivazione viene spesso usata sconsideratamente proprio dai poeti in erba, che vogliono impressionare calcando troppo la mano, sfociando in ridicoli sovrattoni. Comprensibile dunque che la via più facile sia quella di una controriforma, con l’esaltazione del sostantivo.

Però questa argomentazione pseudo-filosofica rivela in realtà una comprensione grossolana della grammatica. Le classi grammaticali sono infatti contenitori troppo generici, e servono diramazioni ulteriori per capirci nei fatti di stile. La prima è fra aggettivi qualificativi di ‘descrizione’ (per es. ‘cupo’) e aggettivi qualificativi di ‘relazione’ (per es. ‘socialista’ o ‘circondariale’; più chiara la terminologia inglese: ‘descriptive’ vs ‘classifying’). Gli aggettivi di relazione saranno percepiti come meno soggettivi rispetto a quelli descrittivi (senza contare i valutativi, es. ‘rosso’ vs. ‘bello’). Ma anche all’interno degli aggettivi descrittivi, c’è differenza fra quelli modificabili (gradable) e non (o meno): tra cupo–>cupissimo e chino–> chinissimo (?). Solo quelli della prima categoria aggiungeranno soggettività, mentre quelli della seconda saranno più essenziali, più indispensabili alla specificazione del sostantivo. Senza poi contare, sul piano sintattico, la differenza fra funzione attributiva (‘cupa stanza’) e predicativa (la stanza è cupa), e fra anteposizione (‘la cupa stanza’) e posposizione (‘la stanza cupa’). E sul piano semantico, la distanza o meno fra proprietà implicite nel sostantivo e proprietà esplicitate dall’aggettivo (per es. ‘aria fresca’ vs. ‘aria sbranata’, Rebora).

La foga contro l’aggettivazione è un errore sineddochico, fa coincidere la parte per il tutto, e cioè l’anteposizione dell’aggettivo qualificativo+descrittivo+modificabile+arbitrario/scontato (per collocazione) al sostantivo, per l’uso dell’aggettivo tout court. Voglio dire, insomma, che l’aggettivazione è vitale alla poesia – non solo perché gli aggettivi sono relazionali, ma perché nell’esserlo vanno più vicini ai qualia, alla fenomenologia (contro o in alternativa al materialismo del sostantivo). Se bene utilizzato, l’aggettivo è una stilettata dello sguardo e dell’introspezione. Sono le categorizzazioni grammaticali grezze che sembrano porre stupidi veti alla pratica poetica. Questo non vuol dire fare a meno delle categorizzazioni, ma anzi: aumentarne il numero. Perché se Luzi antepone ‘alta’ e ‘cupa’ a ‘fiamma’, trattiene l’eloquenza (anteposizione) ma usa due aggettivi descrittivi ‘nel giusto mezzo’ fra arbitrio e scontatezza: comportano un accrescimento dell’esperienza della fiamma, ma proprio perché evitano tautologia (calda fiamma), facile ossimoro (fredda fiamma), arbitrio originaloide (robotica fiamma). A proposito, l’arbitrio originaloide è uno dei più sicuri segni di insicurezza nella composizione.

Al tempo stesso, non ho nessun pregiudizio contro l’accumulo aggettivale, che raggiunge delle punte bellissime, di amplificatio ed eloquenza, in Faulkner (poesia, anche se incastonata in romanzi). Alcuni esempi da Intruder in the dust:

1. the narrow delicate almost finicking mule-prints

2. six lazy idle violent more or less lawless a good deal more than just more or less worthless sons

3. the trunks of the high strong constant shaggy pines, solitary but not forlorn, intractable and independent

4. cold lightblue tearshaped apparently heatless flames

Faulkner, Intruder in the Dust

Perché questi sintagmi carichissimi di aggettivi funzionano così bene?

A) anzitutto, sono parti letterariamente dense che si alternano a parti più estese di narrazione, secondo un principio di non-omogeneità che è più difficile ottenere nello spazio breve (tradizionalmente breve, ahimè) del testo lirico.

B) I referenti descritti sono carichi di significato, e proprio per questo devono essere precisati: le tracce del mulo (1) sono indizi importanti su come il dissotterramento di un cadavere sia avvenuto, e quindi hanno un’importanza proprio semiotica; in (2) vengono tratteggiate delle persone, classe semantica quasi intrinsecamente ‘degna’ di attenzione (sembra una visione antropocentrica, ma cognitivamente ed evoluzionisticamente è così); in (3) i pini hanno valenza simbolica, al punto che quello dell’albero solitario è un simbolo o cliché (simboli e cliché sono vicini) discusso da Riffaterre in riferimento a Wordsworth; in (4) le fiamme sono il secondo termine di una metafora usata per descrivere un anziano, e quindi vale lo stesso discorso fatto per (2)

C) Ordine e selezione degli aggettivi: in (1) disposti secondo una climax di informatività crescente, dal fisico (narrow) al fisico-psicologico (delicate) allo psicologico (finickying), con iconismo della ‘penetrazione’ dello sguardo che esamina; in (2) l’isotopia negativa/privativa che percorre gli aggettivi, con endiadi (‘lazy idle’) e variazione sintattica (per modifica avverbiale: ‘more or less’, ‘a good deal more’) e ripetizione lessico-morfologica (‘less’); in (3) alternanza di collocazioni standard (strong, shaggy; ‘shagged’ modifica un altro albero, ‘jupiters’, in Stevens) e collocazioni inconsuete (‘high’, ‘constant’), e – come negli altri casi – agglutinate asindeticamente e senza interpunzione. Inoltre, precisazioni semantiche (correctio) per cui sinonimi vengono stavolta contrastati anziché giustapposti (‘solitary but not forlorn’), e uso di un aggettivo (‘intractable’) usato per l’uomo condannato d’omicidio altrove, molte pagine prima, e quindi implicita equivalenza di uomo e albero; in (4) ridondanza sinomimica dove il secondo termine ha maggiore informatività del primo (‘cold’, ‘heatless’), cromatismo che si sposa alle fiammelle domestiche (blu) ma che devia dalla rappresentazione di default delle fiamme (rosse), e aggettivo composto (‘tearshaped’), prezioso ma al tempo stesso denotativamente accurato: le fiammelle davvero hanno forma di lacrima.

Ecco, quando qualcuno di noi avrà almeno il 10% di questa maestria, potrà giocare e strafare con gli aggettivi.

Nebbia come animale aggressivo

In una tra le molte belle canzoni di Ivano Fossati (Il pilota), a un certo punto si dice:

con la nebbia di Milano

che gli morsica il culo per allegria

I. Fossati, Il pilota

L’immagine della nebbia come persona o animale aggressivo, che morsica il culo al velivolo, a prima vista sembrerebbe controintuitiva – la nebbia viene più prontamente associata a qualcosa di tenue, diffuso ed evanescente. Può darsi però, per riprendere Riffaterre, che agiscano intertesti letterari in cui la nebbia è presentata in modo simile – sarà allora la memoria letteraria piuttosto che la plausibilità esperenziale a giustificare l’immagine. I due intertesti che conosco sono i seguenti, da Eliot e da Dickens:

The yellow fog that rubs its back upon the window-panes

The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes

Licked its tongue into the corners of the evening

Lingered upon the pools that stand in drains

T. S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock

Fog cruelly pinching the toes and fingers of his shivering little ‘prentice boy on deck’

C. Dickens, Bleak House

Se trovate altre associazioni simili, contattatemi!

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