Categoria: Architettura & scultura

  • 17# Su “Double Negative Pyramid” di Sol Lewitt

    Vilnius, Europe Park. Quella che vedete in foto è la Doppia piramide negativa (Double Negative Pyramid), di Sol LeWitt, artista americano legato all’arte concettuale e al minimalismo.

    La piramide è doppia perché si riflette in un laghetto artificiale, anche se questa foto non lo mostra. E’ negativa nel senso fotografico del termine perché è il calco di una piramide, cioè la piramide è lo spazio scavato.

    Mi piace come questa scultura giochi – deconstruendolo – con il concetto di potere. La piramide è ovviamente il simbolo non solo dei faraoni egizi, e quindi di un’autorità indiscutibile e divina; ma anche la rappresentazione grafica della gerarchia, delle disuguaglianze. Qui però è negata, scavata, come la terra che si ritrae nell’orrore della caduta di Lucifero; la punta è letteralmente il livello più basso. Inoltre, il suo minimalismo geometrico anni ’60 non è poi lontano dal modernismo fascista e non solo anni ’30 – quello dell’EUR di cui ho scritto nel post precedente. Ma letteralmente lo svuota, lo muta di segno, non celebrando un bel niente. Le linee nette, geometriche, contrastano poi vigorosamente con quelle imprevedibili e flessuose del bosco circostante.

    Non solo: la scultura invita, proprio a livello di interazione fisica (di ‘affordances’) a scalarla, come ho fatto io. Dà ancora un’illusione di potere perché può ricordare un trono. Solo che le sue dimensioni mi fanno apparire come un ragnetto o una macchia nel mezzo, frustrando quindi questa vanità. ‘Pull down thy vanity’, ingiungeva Pound a sé stesso. Dovremmo farlo più spesso, specie noi uomini (non tutti) dalle tendenze egotiche e narcisiste.

  • 16# Roma: EUR o della penitenza

    Attraversare gli spazi dechirichiani dell’EUR non è una passeggiata. Letteralmente: somiglia più al pellegrinaggio in un rovescio di Purgatorio, a una catabasi penitenziale nell’ottusità autoritaria e infantile di potenza (“un leader e l’infante che lo tiene per mano”, scrissi in un vecchio verso), che schiaccia le persone sotto edifici imperiosi e uniformi. Snobbati da turisti e da locali, veramente deserti: sono i palazzi meno che secolari dell’EUR le vere rovine, il rimosso del nostro passato recente, e non i fori imperiali che prosperano del commercio quotidiano col turismo e dove la parola “impero” può essere pronunciata senza sensi di colpa o nostalgie conservatrici: a ripulirla e smerigliarla provvedono già i millenni trascorsi (il tempo rifatto gentiluomo), nonché gli ultimi decenni di gadget e film epici, una presunta grandezza che sa d’evasione. I sogni espansionistici e gli slogan gravemente incisi sui frontoni di questi rettangoli modernisti mi arrivano addosso come voci ridicole eppure oggi nuovamente rivendicate da altri Stati, nell’ossessione tribale per la terra che si controlla senza saperla vivere, ovvero ascoltare. Vale infine la pena di elencare alcuni di quei minimi attori che rallentano il passo e lo aggravano sopra un piano orizzontale ma faticoso: l’erba riarsa, l’afa stagnante che in altre parti di Roma sembra convertirsi in un caldo secco e schietto, i vetri rotti sulla scalinata del Palazzo della Civiltà Italiana. Pochi nomi, per inciso, suonano più antifrastici di questo; il racconto “Davanti alla Legge” di Kafka potrebbe benissimo essere ambientato qui, davanti alla scalinata di questo edificio recintato, chiuso al pubblico, dalle attività ibernate o mai avviate, con all’ingresso una guardia come una macchietta inespressiva; guardia che quando mi sono avvicinato e ho chiesto se fosse possibile entrare in questo grande cubo, mi ha risposto quasi senza fastidio e quasi senza sorpresa, e – va da sé – senza umorismo.