Categoria: Cinema

  • 18# “Anomalisa”, o la camicia di forza della normalità

    [Sono una persona di pochi ma forti entusiasmi, di lenta ma intensa assimilazione. Mi è dunque tornato in mente un film che quasi un decennio fa mi colpì molto, Anomalisa di Charlie Kaufman e Ducke Johnson. Ne è traccia la recensione che ne scrissi o meglio la riflessione che mi sollecitò nel lontano 2016. Non ho scritto recensioni di altri film in vita mia, eccetto, molto più di recente, su La zona d’interesse. Forse il mio stato d’animo d’allora si accordava perfettamente a quello di Anomalisa; non ho idea quale effetto provocherebbe in me se lo riguardassi adesso. Un paio di anni più tardi avrei letto La pura superficie di Guido Mazzoni, un libro capitale e che mi pare molto in sintonia con questo film. ll testo originale della mia recensione-riflessione, che è più che altro un ritratto del protagonista del film, si trova su Nazione Indiana. Lo riporto qui per intero, dopo tutti questi anni, limitandomi ad apportare alcune minime modifiche stilistiche. Buona lettura]

    Devo scrivere di Anomalisa, l’ultimo film in stop-motion del regista Charlie Kaufman, uscito nelle sale italiane nel febbraio 2016. Mi occupo di critica letteraria, so poco di cinema e non ho mai osato finora cimentarmi nella recensione di film; eppure devo scriverne, se non altro per chiarirmi il più intenso, intimo e inatteso rapimento emotivo, terremoto interiore, provato da molti mesi a questa parte. Non per una poesia, non per un romanzo, nemmeno per una persona. Per un film. La stessa intensità che scattò per Blancanieve (Pablo Berger) e per Mulholland Drive (David Lynch) ma nel caso di Anomalisa forse più introiettata, meno estetica.

    A dar conto di questa intensità certamente c’entra, ma solo in parte, la mia fascinazione per il grottesco a sfondo tragico e per l’uncanny, esemplificati nella balena arenata sulla piazza di un villaggio in Werkmeister Harmonies, di Béla Tarr; certamente anche c’entra, ma ancora una volta solo in parte, la resa del sordido in chiave iperrealista, ma senza esibizione di sé, come uno Edward Hopper trasposto nella pellicola. Più ancora e finalmente c’entra il fatto che il protagonista, Michael Stone (fredda pietra, nome-emblema che può forse richiamare lo Stoner di John Williams), è un me-ombra potenziale, l’accademico che ha interrato la propria freschezza intellettuale per obbedire alla logica del successo che quella freschezza (o spregiudicatezza, non sappiamo – di Michael conosciamo il presente, non il passato) gli ha garantito. In Michael ho intravisto insomma quello che a tratti mi è sembrato di avvertire in me, perlomeno in forma embrionale e da almeno un anno a questa parte.

    Michael è come avvolto da uno schermo isolante, appare morto alla vita e riduce lo scambio con gli altri al minimo indispensabile per le questioni di logistica (l’invito a una conferenza, l’alloggio…). Del linguaggio ha dimenticato non solo gli aspetti espressivi, ma anche quelli simbolici e di rappresentazione dell’esperienza. Ironia atroce per un motivational speaker di successo come lui. Paradossalmente, e quasi per una forma di difesa personale, Michael conserva un rudimento di sensibilità per l’aspetto meno strumentale del linguaggio, quello al tempo stesso più esteriore (fisico) e interiore (psicologico): la musicalità – tono, timbro, intonazione – che scorge solo in Lisa, protagonista femminile e quasi-fiamma sia pur non troppo appariscente. In questo senso, credo, va letta l’ardita ma efficacissima scelta di omologare tutte le altre voci, con effetto dapprima straniante ma che poi va sinistramente assimilandosi nello spettatore. Questa iper-sensibilità per l’aspetto musicale della lingua tradisce tuttavia un grado ennesimo di narcisismo: a Michael non interessa cosa gli altri abbiano da dirgli, non prova interesse per la loro storia e meno che mai per la loro sfera emotiva (troppo banale, prevedibile… o troppo compromettente?).

    Ma Michael è prima di tutto e platealmente disinnamorato di se stesso, nauseato dai discorsi e dalle ricette per il successo che egli stesso ha ideato e che persino ora si accinge a promuovere. Lo fa vigliaccamente, come una coercizione a ripetere, un’impotenza di fronte al proprio stesso successo misurato su parametri esteriori, quantificabili in copie vendute e inviti spesati. In una scena climatica, il film mostra la caduta tragica e penosa del protagonista, quando Michael pronuncia un discorso incoerente e claudicante davanti a un pubblico che era pronto a pendere dalle sue labbra; Kaufman non concede sconti al suo poco amabile ma in fondo fin troppo umano protagonista.

    L’incubo dell’essere voluti e richiesti per la propria immagine pubblica (poiché quella privata Michael l’ha nascosta anzitutto a se stesso fino al punto di rimuoverla) si concretizza, mi sembra, verso i tre quarti del film, nella sequenza onirica in cui Michael è letteralmente inseguito e accerchiato dai suoi ammiratori. La solitudine nella folla, forse la peggiore, la stessa che magistralmente Iac McEwan in Amsterdam tratteggia a proposito del direttore editoriale Vernon Halliday preso d’assalto dai suoi redattori. La stessa che Montale confessò di aver provato a Firenze, quand’era a capo del Gabinetto Viesseux (cito a memoria da un’intervista: “a Firenze ho conosciuto anche troppe persone, e la mia solitudine non era meno intensa che a Genova”).

    Interessante notare che tutti questi personaggi sono uomini, e mi chiedo se questa forma della solitudine (altera, amara, scostante; non eroica, non poetica) insidi soprattutto il genere maschile, che nel suo agonismo tende a recidere i rapporti o  coltivarli solo per servirsene, anziché tenerli cuciti per la bellezza del fatto in sé (insiste sul tema Virginia Woolf in Gita al faro, nel centrale episodio della cena). Mi trovo d’un tratto a pensare – dopo un breve ma vivificante viaggio in Sicilia – che questo film non sarebbe potuto nascere in terre comunitarie, perché è sintomo e denuncia di un capitalismo avanzato che riduce gli individui a monadi. Bersaglio di Kaufman è dunque, indirettamente, l’ossessione degli Stati Uniti per la produzione di manuali sul come parlare, come comportarsi e come vivere, salvo che è poi il vivere come processo e scoperta bastanti a sé stessi a essere accantonato… l’Inghilterra, dove vivo da quasi cinque anni, non sembra poi troppo distante da questa sottile distopia già presente.

    Nemmeno più si sforza, Michael, di essere gentile, benché tutti o quasi lo siano nei suoi confronti – questa è anzi la sua gabbia, la sua condanna. Al tempo stesso gli manca tuttavia la tempra per essere un burbero interessante, per abbracciare interamente la causa dell’antipatia. Il suo scansare gli eccessi in negativo e in positivo è vòlto a scoraggiare l’empatia dello spettatore; la sua mancanza di intelligenza emotiva non gli viene perdonata perché compensata da chissà quali altre doti. Certo, intuiamo qualcosa della sua intelligenza libresca dal modo in cui viene riverito (l’onorifico “professore”), ma come un residuo di glorie passate, un’immagine di sé che Stone rispolvera senza farci più i conti. Come un attore chiamato a ripetere una parte che una volta doveva essere vibrante, autentica; questo Sé precedente e sepolto si riaffaccia infatti fugacemente nell’incontro con Lisa, durante il quale Michael si trasforma in un adolescente innamorato ancorché con tendenze a ipostatizzare la donna in un’idea, a non lasciarla essere e respirare per quello che lei è. Michael insomma abitò profondità che nessuno sembra saper smuovere più in lui: lo dicono l’estrema lentezza dei suoi gesti e i minimi (ma per questo tanto più significativi) movimenti del suo volto. Ecco, io credo di essere stato, per brevi istanti ma più volte, un Michael con trent’anni e con molto successo in meno. La breve prosa che riporto qui sotto l’ho scritta qualche mese prima della visione del film, a riprova di una sensibilità in potenza comune, una convergenza indesiderabile che dovrebbe agire come un allarme:

    È un genio triste, nei suoi momenti migliori. Quando no, gli si spalma addosso una stoltezza sensoriale a prova di tutto fuorché del tempo, che la conosce e l’infiltra, minando il sottostante. Messo di fronte all’evidenza del cielo stellato, constata che è in alto, buio e assai grande. Al limite, detto cielo gli ricorda una giacca gravata di forfora, ma lo humour non è il tempo e pertanto non passa. Stira i muscoli facciali in una smorfia di meraviglia perché nel contesto appropriata. Distinguere gli aerei dalle stelle cadenti è facile fino alla noia.

    Il sostrato emotivo, psicologico, è affine. La mia mente intertestuale non può a questo punto non viaggiare (terremoto emotivo della stessa qualità, per la stessa identica estraneità là veicolata) fino al Lupo della steppa di Herman Hesse (anche qui, il protagonista Harry è un intellettuale di mezza età) nonché al Gabriel intellettuale disadattato de I morti di Joyce, cui sembrano far da eco emotiva questi versi di Sereni: “si pensa ad essi [i versi] mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultimo giorno dell’anno”). In sostanza, si perde la meraviglia del mondo: inizialmente perché si è creativi e si ha in odio la ripetizione, ma poi perché non si è in grado di affinare lo sguardo, di trovare e accettare il bello al di fuori dell’eccezionale – tale a Michael era parsa la voce di Lisa nel tempo fuori dal tempo di una conferenza, nell’anonimo sfondo di una città che per una volta non è né New York, né Los Angeles, ma soltanto Cincinnati, tra l’anonimia e l’anomalia del titolo (morfologicamente, un blending). L’idillio bruscamente si infrange – con la voce di Lisa che torna uguale a tutte le altre in uno dei momenti più amari del film – proprio quando lei inizia a innamorarsi e a desiderare di condividere la propria vita quotidiana con Michael: colazione, progetti per il futuro… Cosa è andato per il verso sbagliato? Che la realtà si è presa la sua rivincita sulla mente tirannica e infantile di Michael; che Lisa si è rivelata essere una persona a tutto tondo, molto più sfaccettata del timbro di una voce in cui le manie depressive e l’estasi estetica di Michael avrebbero desiderato confinarla. E Lisa, personaggio positivo del film in crescendo e fino all’epilogo, dimostra infine di essere assai più matura di Michael, accettando la natura di lui e superando la propria delusione amorosa. A Michael al ritorno dalla conferenza resteranno i visi amici e forse un po’ pressanti dei parenti che l’aspettano, che non lo capiscono, e che lui ricambierà non capendoli, proprio come il Gabriel de I morti.

  • 13# La cecità dello specialista. Contro una critica a “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer

    8–12 minuti

    Di recente mi sono imbattuto in alcune recensioni su La zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer – film da rivedere perché a rilascio graduale, con quella sua capacità di insinuare residui e grumi nello spettatore, che dovrà tornare a farvi i conti a pellicola conclusa. Com’è giusto che faccia l’arte in generale.

    Non sono un critico cinematografico né tantomeno un esperto di Shoah, ma mi sconfortano certe modalità di recensione che, nonostante la loro erudizione (o proprio a causa di questa), sembrano andare spettacolarmente fuori strada. Desidero concentrarmi sulla recensione uscita su Antinomie a firma di Arturo Mazzella: il recensore è un esperto del rapporto fra Shoah e immagine, tema indagato nel suo recente libro La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini. Sulla carta, pertanto, nessuno meglio di lui sembrerebbe qualificato a valutare il film di Glazer. La recensione (o forse sarebbe meglio chiamarla ‘riflessione critica’) appare serrata nell’argomentazione. Ecco come si sviluppa:

    1. Mazzella inizia rilevando il consenso generale e quasi unanime intorno al film di Glazer, tracciando paralleli con la ricezione riservata a film precedenti sullo stesso tema (La vita è bella, di Benigni, e Il pianista, di Polanski);
    2. A questo punto, però, egli introduce la critica portante, che accomunerebbe i tre film: la loro incapacità di mostrare “il groviglio di contraddizioni e conflitti che vanno al di là dell’opposizione tra vittime e carnefici, tanto ovvia da non consentire alcuna integrazione”;
    3. Questa tesi è portata avanti per tutto il resto dell’intervento. In sostanza, il film viene accusato di un impianto manicheo, basilare, ricalcato “sugli stereotipi ereditati dal passato”. A Mazzella sembra dispiacere, in particolare, l’assenza “di ipotesi esegetiche molto più ardite”;
    4. Per portare avanti la tesi di cui sopra, egli si appella a Godard, alla sua poetica del montaggio stridente fra diverse sequenze nelle Historie(s). Scrive Mazzella che “proprio una “seconda” immagine è quello che manca del tutto alla Zona d’interesse“. Questa monotona uniformità, insomma, non permetterebbe di esplorare il conflitto e la tensione di cui al punto 2.

    Spero che questo riassunto non faccia torto al lavoro di Mazzella; il lettore, ad ogni modo, potrà verificarla da sé al link sopra.

    Intuisco un problema fondamentale, direi persino epistemologico, in tutto l’intervento. Mi riferisco all’imposizione top-down, dall’alto, di assunti storiografici, ermeneutici ed estetici (il modello di Godard), che vengono disattesi o ignorati dal film, con comprensibile scontento del recensore. Il film insomma gli pare imperfetto o perfino sbagliato perché non risponde a una serie di requisiti o aspettative. Il film non viene davvero guardato, ma studiato come un saggio, e misurato su un’estetica diversa – quella di Godard – assunta dogmaticamente come golden standard. E’ questa forzatura categoriale la cecità cui faccio cenno nel titolo del mio post.

    Significativamente, Mazzella non si prende mai davvero la briga di analizzare a fondo la regia. Vi accenna, sì, come nei due passaggi qui sotto, ma sorvolandola più che addentrandovisi:

    ”nonostante la magistrale regia di Glazer, il film parte da tale opposizione [tra vittime e carnefici] per arrestarsi a essa, snodandosi lungo un asse narrativo decisamente statico, al cui interno l’antagonismo tra vittime e carnefici si esprime attraverso la modalità più elementare”

    le tracce della loro esistenza [delle vittime] sono affidate unicamente al sonoro proveniente dal fuoricampo. Una tecnica cinematografica la quale, mai come in questo caso, aderisce capillarmente a ciò che essa designa. Il fuori-campo, utilizzato da Glazer con indiscutibile maestria (come dimostra il premio Oscar per il miglior sonoro attribuito al film), coincide infatti con la scelta di escludere drasticamente dallo schermo ogni immagine che si riferisca al campo di Auschwitz, evocato solo dall’insistente ellissi ottenuta attraverso gli scorci delle mura che lo circondano e i suoni che provengono da lì.

    Nel primo passaggio riportato v’è l’assunto, tutto da dimostrare, che la complessità sia un valore in sé, e l’elementarità invece qualcosa da cui fuggire. Non è così, e per almeno tre motivi:

    • Primo, Mazzella, non avendo davvero analizzato (cioè descritto e interpretato dal punto di vista delle intenzioni del regista) la regia, cioè la lingua e quindi il modo di pensare del film, non può permettersi di tacciarlo di semplicità. Per sapere se qualcosa è semplice o complesso, bisogna analizzarne la struttura, le superfici. Mazzella questo non lo fa.
    • Secondo, vari studi empirici di ricezione – benché sulla poesia – hanno dimostrato che la complessità è un valore occidentale, e non può applicarsi globalmente a patto di voler fare del “colonialismo concettuale”. A pensarci bene, l’argomento non tiene nemmeno all’interno della nostra cultura: forse che le chiese romaniche sono peggiori di quelle barocche perché strutturalmente più semplici, più essenziali?
    • Terzo, la complessità può vestirsi di semplicità, come nel caso del modernismo pittorico che si ispirava all’apparente semplice naivismo delle culture tribali. Qui la complessità risiede non nella struttura ma nell’audacia di spezzare un paradigma consolidato – quello del Rinascimento e del suo prospettivismo umanistico.

    Il secondo passaggio sembra meno sbrigativo, e però anche qui ci si limita a elencare le tecniche senza davvero attraversarle, senza cercare di capirne la funzione. Le tecniche sono insomma rilevate in quanto forme, e perciò stesso accettate o respinte. Per esempio, come spiegherò meglio fra poco, l’importanza del sonoro nel film è capitale, assumendo proprio il polo dialettico di cui Mazzella lamenta la mancanza. Il fatto che l’ellissi sia “insistente” (a detta dello stesso Mazzella) dovrebbe far sorgere qualche dubbio circa l’entità della rimozione del punto di vista delle vittime.

    La mancata analisi della regia non è solo un problema di focus, ma un vero e proprio buco metodologico che sconfessa l’argomentazione principale. Infatti, quanto Mazzella scrive al punto 4 si rivela essere falso in maniera lampante. Glazier, è vero, non si serve del montaggio drammatico alla Godard, però ne opera uno più sottile, anzi, ne inserisce di vari e su vari livelli. Anzitutto, l’uso pervasivo dell’ellissi (per esempio, il fumo degli inceneritori che si intravede dalla casa del Comandante di Auschwitz Rudolf Höss e la sua famiglia) può essere esso stesso interpretato, dal punto di vista percettivo, come una forma di montaggio simultaneo (un collage insomma) dove elementi contrastanti non vengono relegati a scene distinte ma sono co-presenti nella stessa scena (frame). Ciò richiede una fruizione non seriale bensì parallela, sinestetica, più coinvolta e meno analitico-distaccata. L’uso dell’ellissi viene criticato perché esso andrebbe contro l’abbondanza testimoniale della Shoah:

    Se c’è una tecnica narrativa che oggi – dopo un’alluvione di testimonianze cinematografiche, letterarie e artistiche, ovviamente di qualità eterogenea – non può offrire alcuno spunto di riflessione sulla Shoah questa è l’ellissi.

    Tale affermazione dogmatica e assertiva manca totalmente il punto: l’ellissi è provocatoria e proficua esattamente perché l’evidenza testimoniale è abbondante. Tenendo presente che oggi è in corso un plausibile genocidio a Gaza, Glazer intende mostrare che ormai le immagini hanno smesso di toccarci, di scuoterci, proprio perché ne siamo travolti, sopraffatti. Siamo, per la maggior parte, insensibili al visivo.

    Inoltre, come già accennato prima, l’operazione di montaggio concettuale più decisiva in La zona d’interesse si realizza a livello del rapporto tra visivo e sonoro: il sonoro perturbante e iperrealistico del film (Mazzella ha ragione a dire che ‘aderisce capillarmente a ciò che designa’, ma sembra dirlo a mo’ di critica) è, a detta di Glazer stesso, un vero e proprio ‘film’ parallelo, di pari se non superiore dignità rispetto al film visivo. E’ nel sonoro infatti che si realizza il polo dialettico che letteralmente Mazzella non vede o non vuole vedere. Come sappiamo dal cognitivismo, anche il suono è immagine, cioè suscita imagery nello spettatore. L’alternarsi del lungo, in apparenza ‘banale’ film visivo e del breve, drammatico film sonoro è il meccanismo che crea tensione e conflitto. Sorprende che la parte sonora del film, che è da capogiro e che rappresenta davvero le vittime, nella recensione occupi sì e no mezza riga. L’incapacità o il rifiuto di dare al sonoro statuto di immagine (e quindi statuto semiotico di rappresentazione) conduce a questa conclusione:

    ”Del tutto assente, però, nel film di Glazer [la terza figura che emerge dalle due in opposizione], la cui restrizione del punto di vista a una sola prospettiva non può che restituire il luogo comune della “banalità del male”.”

    Ma non è vero che nel film c’è solo la prospettiva dei carnefici (dei tranquilli oppressori di cui scriveva Fortini in Traducendo Bretch): quella delle vittime è articolata (disarticolata) nel sonoro stridente, proprio perché le vittime non hanno il controllo dell’informazione, e sono ridotte al silenzio (non dovrebbero servire i trauma studies e i colonial studies a ricordarcelo).

    Un’ulteriore strategia dialettica messa in atto dal film, e del tutto ignorata da Mazzella, è l’irruzione di scene girate in notturna coi raggi a infrarossi, a rappresentare il bene, divenuto pericoloso e quindi da fare di nascosto: queste scene sono un contraltare all’afosa, cristallina e statica distanza con cui viene rappresentata la famiglia di Rudolf Höss. E quindi il principio di Godard – che è un principio estetico fra l’altro, non una legge inviolabile! – viene rispettato, anzi innovato, senza l’ortodossia che Mazzella avrebbe desiderato. In sostanza, il critico sembra non aver guardato l’intero film, o sembra averne rimosso aspetti decisivi, o sembra averlo guardato con occhiali del tutto inappropriati. Come dicevo prima, senza una complessiva descrizione del film, anche le conclusioni che se ne traggono sono falsate. Sembra banale doverlo ribadire, ma è così.

    Infine, nel passaggio citato più sopra, Mazzella si lamenta che il film non va oltre “il luogo comune della banalità del male”. Ma la banalità del male non è un luogo comune: è semmai una formula icastica, memetica e potentemente sintetica. Né i luoghi comuni sono innocenti: “la forza del luogo comune, dolorosa” scriveva Vittorio Sereni in una sua poesia. Ma l’arte può e anzi dovrebbe riproporre verità banali, senza per questo farsi pigra o ideologica: la sua modalità non è quella della conoscenza razionale, speculativa o pedissequamente archivistica che sia, per cui si chiederebbe a un film di dare un contributo paragonabile a quello richiesto a un trattato scientifico o filosofico; ma piuttosto risiede (o può anche risiedere) nell’apprensione sensoriale, nell’intelligenza della percezione risvegliata e perfino liberata dalle ipotesi esegetiche (rendere la pietra nuovamente ‘di pietra’, nella formulazione di Shklovsky). Per esempio, una delle cose che maggiormente mi hanno colpito del film sono i colori saturi e un po’ sfocati, afosi, che a guardarli bene mettono difficoltà nel respirare, come se fossero essi stessi fumo tossico: in una scena superlativa dove vari tipi di fiori vengono ripresi, la loro minacciosità (acuita dal sonoro) diviene evidente al punto di inchiodare lo spettatore: le corolle sono aperte come forni crematori.

    Altro aspetto dialettico: benché la maggior parte del minutaggio sia dedicata agli oppressori, il prevalente campo medio-lungo impedisce qualsiasi identificazione empatica: si è abbastanza lontani da non essere loro, ma abbastanza vicini da non essere a loro del tutto estranei. Se – come un altro recensore aveva sperato – Glazer avesse optato per primi piani, l’effetto possibile (e deleterio) sarebbe stato quello di una complicità al limite dell’ammirazione, dell’identificazione con il carnefice. E’ tale identificazione morbosa quella che che viene propinata in molti film sui serial killer, ed è manipolatoria e dunque poco etica.

    Un’ultima nota. Il sonoro, così come i minuti di buio all’inizio, così come le sequenze a raggi infrarossi, sono minoritari dal punto di vista del minutaggio, ma hanno un impatto e una significanza infinitamente maggiori. Sono la deviazione dalla norma, sono l’emersione dell’inconscio (dell’umanità repressa altrove) che erompe per poco ma in maniera abissale, indimenticabile. Consiglierei dunque a Mazzella di riguardarsi il film, sgravandosi delle convinzioni immobilizzanti che ha maturato in quanto esperto della materia.