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  • 14# Lirismo che dimentica il mondo

    2–3 minuti

    L’effetto spesso lezioso o pretenzioso di tanto diffuso lirismo deriva da un desiderio di sintesi che in realtà non è condensazione di vissuto, ma sua mutilazione: ci si illude, cioè, di attingere al sublime non per una via d’ascesi che parta dall’ascolto e dall’attraversamento del sensibile e della propria psiche (come, massimamente, in Emily Dickinson) ma per via diretta, come se si fosse graziati da una privilegiata telepatia con l’iperuranio. I risultati sono quasi sempre poverissimi, plastificati, proprio perché spogliati da ogni attrito della vita fenomenologica, che è anche sangue, sudore, attrito. Purificazione non per fuoco, dunque, ma igiene schifiltosa, anche latamente violenta.

    Dimostro questo assunto partendo da due versi del poeta cubano Antonio José Puente. Sono due versi che amo molto e mi porto dietro da anni. Sono tratti dalla poesia Sei minuti di conversazione con l’estero, nell’antologia di poesia cubana L’isola che canta, che recensii oltre dieci anni fa qui.

    “ci siamo assottigliati fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    Nella poesia, questa clausola è l’amara realizzazione del poeta, che avverte la sopraggiunta estraneità nei confronti dell’ex amata: una situazione in cui molti di noi si saranno trovati, quando il legame sentimentale si scioglie, ma perdura comunque un rapporto cordiale. Il “chiedere del clima” è il classico esempio di small talk che si fa con gli sconosciuti, e qui indica estraneità e imbarazzo. L’assottigliamento è un appiattimento, e il lettore può solo immaginare l’entità del tutto diversa delle conversazioni fra i due amanti in tempi migliori. Trovo questi versi molto riusciti non solo perché intercettano una regione emotiva complessa con economia di mezzi, ma anche perché la rendono palpabile, immettendola nella situazione della telefonata.

    Imitando il poetese dominante, è possibile piano piano rovinare la bellezza di questi versi in maniera graduale ‘mutilandoli’ secondo una derivazione che conduca a un lirismo più astratto, cioè decontestualizzato. Ecco come:

    1. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    (un po’ piu’ lirico – sparisce l’ancoraggio deittico del passato prossimo in favore di un presente astorico, assoluto – la situazione è ciclica, perpetua, irreversibile dunque)

    2. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci”

    (piu’ lirico ancora – sparisce la relativa di circostanza)

    3. “ci assottigliamo fino a queste voci”

    (piu’ scorciato-ellittico, la proposizione finale diventa un semplice sintagma)

    4. “ci assottigliamo fino alla voce”

    (cade l’ancoraggio del deittico di prossimità “queste”, la voce si fa grammaticalmente singolare e dunque diventa un concetto astratto”, non piu’ legato a una conversazione specifica; le voci perdono la grana timbrica che potevamo immaginare)

    5. “l’assottigliarsi fino alla voce”

    (cade il “noi” in favore della forma impersonale, l’umano è finalmente estromesso in puro evento esterno)

    Ecco, molta poesia d’oggi pratica le soluzioni 3, 4 o 5, anziché l’originale o le sue versioni leggermente liricizzate, 1 e 2. Non c’è da stupirsi: la sospensione della realtà ‘sporca e cattiva’ è tornata in voga almeno dal postmoderno, e adesso la stiamo pagando tutta nei negazionismi e nelle manipolazioni che ci stanno intorno. La poesia resa astratta ne è appena uno dei sintomi, rumore di fondo nell’egemonia del puramente verbale.