Tag: fenomenologia

  • 9# Contro il “profumo del caffè”

    Se una poetica deve essere fenomenologica, non bastano i referenti concreti o sensoriali; essi devono avere una specificità che faccia pensare alla singolarità del quotidiano, non alla sua schematizzazione. Il fantomatico ”profumo del caffè” sta alla neo-neo linea lombarda come i ”muti respiri dell’assoluto” stanno a Rilke. Entrambi i sintagmi, benché agli estremi del continuum tra mondano e trascendentale, tra low-mimetic e mythic insomma, sono egualmente esangui perché sganciati dalle rispettive esperienze che cercano di proiettare senza averle attraversate, e magari nemmeno lambite. Forse ”la tazzina sa dei chicchi che furono” funzionerebbe meglio.

    Ora, dopo aver letto la tesi di dottorato di Anezka Kuzmicova sulla imagery mentale, so dare a questo fenomeno una spiegazione che mi pare convincente: la studiosa – combinando fenomenologia e cognizione incarnata – asserisce che la percezione ‘dal vivo’ tende a essere molto più satura, esperienzialmente, rispetto all’immagine mentale che evochiamo quando ci danno un prompt decontestualizzato (per es. ‘pensa a una tazza di caffè’), il quale risulta appunto in una immagine schematica, o più precisamente immagine descrittiva di default (default description image) e non tridimensionale-interattiva, a meno che tale tazzina non venga inserita in un contesto senso-motorio e cinetico (per es ‘afferro la tazzina e una goccia mi ustiona’). Il profumo di caffè, etichetta generica, assomiglia a un prompt decontestualizzato.

    Ne consegue che ogni poeta che voglia aderire alla realtà fenomenica-esperenziale a tutto tondo, farebbe meglio a ritornare con intensità a quello che ha davvero esperito, alla Wordsworth, e trovarne l’equivalente linguistico-retorico (ricorrendo, per esempio, al focus descrittivo, noto come granularità nella linguistica cognitiva), piuttosto che ricorrere a locuzioni prefabbricate, perché appunto la percezione è più satura dell’immaginazione (nel senso di imaging, non di imagination) del fenomenico. Per parlare semplice: io posso scrivere quando voglio di ”una bottiglia rotta”, ma devo davvero aver visto (come mi è successo di recente) un tappo dorato un po’ piegato al centro per concepirne perfino l’esistenza, e desiderare di scriverne con una forza simile alla mia percezione esperienziale (e sua rielaborazione concettuale, fermo restando che separare percezione e concezione è artificiale, non lo si fa più da decenni nelle scienze cognitive – da cui l’idea dell’iperonimo ception). Mi risulta difficile combinare parole come in un tetris fino a ottenere un’immagine esperenzialmente sfaccettata, che preservi il più possibile l’impatto extra-linguistico della cosa. Questo mi sembra davvero un argomento dove la visione post-strutturalista del linguaggio come dimensione altra, irriducibile al dato reale, ci fa una magra figura.

  • 2# Aggettivazione e lingua letteraria

    [Questo post, apparso inizialmente su Facebook, è stato ripreso e citato da Gilda Policastro, che ringrazio di cuore, nella rubrica La bottega di poesia de La Repubblica]

    L’aggettivazione in poesia oggi tende a essere sconsigliata, probabilmente perché pesa ancora la dottrina modernista (poundiana) che punta alla cosa in quanto tale, e quindi privilegia la minore mediazione del sostantivo per uno stile più definito e asciutto. Gli aggettivi, con il loro statuto relazionale (subordinato ai sostantivi) sembrano annebbiare con un di più di soggettività proprio questa linea tutto sommato retta fra nominazione e cosa. L’aggettivazione viene spesso usata sconsideratamente proprio dai poeti in erba, che vogliono impressionare calcando troppo la mano, sfociando in ridicoli sovrattoni. Comprensibile dunque che la via più facile sia quella di una controriforma, con l’esaltazione del sostantivo.

    Questa argomentazione pseudo-filosofica è tuttavia falsata da una comprensione grossolana della grammatica. Le classi grammaticali sono infatti contenitori troppo generici, e servono diramazioni ulteriori per capirci nei fatti di stile. La prima è fra aggettivi qualificativi di ‘descrizione’ (per es. ‘cupo’) e aggettivi qualificativi di ‘relazione’ (per es. ‘socialista’ o ‘circondariale’; più chiara la terminologia inglese: ‘descriptive’ vs ‘classifying’). Gli aggettivi di relazione saranno percepiti come meno soggettivi rispetto a quelli descrittivi (senza contare i valutativi, es. ‘rosso’ vs. ‘bello’). Ma anche all’interno degli aggettivi descrittivi, c’è differenza fra quelli modificabili (gradable) e non (o meno): tra cupo–>cupissimo e chino–> chinissimo (?). Solo quelli della prima categoria aggiungeranno soggettività, mentre quelli della seconda saranno più essenziali, più indispensabili alla specificazione del sostantivo. Senza poi contare, sul piano sintattico, la differenza fra funzione attributiva (‘cupa stanza’) e predicativa (la stanza è cupa), e fra anteposizione (‘la cupa stanza’) e posposizione (‘la stanza cupa’). E sul piano semantico, la distanza o meno fra proprietà implicite nel sostantivo e proprietà esplicitate dall’aggettivo (per es. ‘aria fresca’ vs. ‘aria sbranata’, Rebora).

    La foga contro l’aggettivazione è un errore sineddochico, fa coincidere la parte per il tutto, e cioè l’anteposizione dell’aggettivo qualificativo+descrittivo+modificabile+arbitrario/scontato (per collocazione) al sostantivo, per l’uso dell’aggettivo tout court. Voglio dire, insomma, che l’aggettivazione è vitale alla poesia – non solo perché gli aggettivi sono relazionali, ma perché nell’esserlo vanno più vicini ai qualia, alla fenomenologia (contro o in alternativa al materialismo del sostantivo). Se bene utilizzato, l’aggettivo è una stilettata dello sguardo e dell’introspezione. Sono le categorie grammaticali grezze che pongono stupidi veti alla pratica poetica. Questo non vuol dire fare a meno delle categorizzazioni, ma anzi: aumentarne il numero. Perché se Mario Luzi antepone ‘alta’ e ‘cupa’ a ‘fiamma’, trattiene l’eloquenza (anteposizione) ma usa due aggettivi descrittivi ‘nel giusto mezzo’ fra arbitrio e scontatezza: comportano un accrescimento dell’esperienza della fiamma, ma proprio perché evitano tautologia (‘calda fiamma’), il facile ossimoro (‘fredda fiamma’), come l’arbitrio originaloide (‘robotica fiamma’). A proposito, l’arbitrio originaloide è uno dei più sicuri segni di insicurezza nella composizione.

    Al tempo stesso, non ho nessun pregiudizio contro l’accumulo aggettivale, che raggiunge delle punte bellissime, di amplificatio ed eloquenza, in Faulkner (poesia, anche se incastonata in romanzi). Alcuni esempi da Intruder in the dust:

    1. the narrow delicate almost finicking mule-prints

    2. six lazy idle violent more or less lawless a good deal more than just more or less worthless sons

    3. the trunks of the high strong constant shaggy pines, solitary but not forlorn, intractable and independent

    4. cold lightblue tearshaped apparently heatless flames

    Perché questi sintagmi carichissimi di aggettivi funzionano così bene?

    A) anzitutto, sono parti letterariamente dense che si alternano a parti più estese di narrazione, secondo un principio di non-omogeneità che è più difficile ottenere nello spazio breve (tradizionalmente breve, ahimè) del testo lirico.

    B) I referenti descritti sono carichi di significato, e proprio per questo devono essere precisati: le tracce del mulo (1) sono indizi importanti su come il dissotterramento di un cadavere sia avvenuto, e quindi hanno un’importanza proprio semiotica; in (2) vengono tratteggiate delle persone, classe semantica quasi intrinsecamente ‘degna’ di attenzione (sembra una visione antropocentrica, ma cognitivamente ed evoluzionisticamente è così); in (3) i pini hanno valenza simbolica, al punto che quello dell’albero solitario è un simbolo o cliché (simboli e cliché sono vicini) discusso da Riffaterre in riferimento a Wordsworth; in (4) le fiamme sono il secondo termine di una metafora usata per descrivere un anziano, e quindi vale lo stesso discorso fatto per (2)

    C) Ordine e selezione degli aggettivi: in (1) disposti secondo una climax di informatività crescente, dal fisico (narrow) al fisico-psicologico (delicate) allo psicologico (finickying), con iconismo della ‘penetrazione’ dello sguardo che esamina; in (2) l’isotopia negativa/privativa che percorre gli aggettivi, con endiadi (‘lazy idle’) e variazione sintattica (per modifica avverbiale: ‘more or less’, ‘a good deal more’) e ripetizione lessico-morfologica (‘less’); in (3) alternanza di collocazioni standard (strong, shaggy; ‘shagged’ modifica un altro albero, ‘jupiters’, in Stevens) e collocazioni inconsuete (‘high’, ‘constant’), e – come negli altri casi – agglutinate asindeticamente e senza interpunzione. Inoltre, precisazioni semantiche (correctio) per cui sinonimi vengono stavolta contrastati anziché giustapposti (‘solitary but not forlorn’), e uso di un aggettivo (‘intractable’) usato per l’uomo condannato d’omicidio altrove, molte pagine prima, e quindi implicita equivalenza di uomo e albero; in (4) ridondanza sinonimica dove il secondo termine ha maggiore informatività del primo (‘cold’, ‘heatless’), cromatismo che si sposa alle fiammelle domestiche (blu) ma che devia dalla rappresentazione di default delle fiamme (rosse), e aggettivo composto (‘tearshaped’), prezioso ma al tempo stesso denotativamente accurato: le fiammelle davvero hanno forma di lacrima.

    Ecco, quando qualcuno di noi avrà raggiunto almeno il 10% di questa maestria, potrà giocare e strafare con gli aggettivi.