Tag: Ferraris, Maurizio

  • 21# Autenticità e poesia contemporanea: alcune riflessioni

    [Un paio di settimane fa, Le parole e le cose ha ospitato una mia riflessione su autenticità, lingua e responsabilità individuale in tempi sempre più bui, da fine 1938. Ringrazio di cuore Maria Borio e Laura di Corcia per l’invito, e più in generale per la tenacia e costanza con la quale hanno tenuto acceso il dibattito su questo concetto – che solo concetto non può e non deve essere. Riporto qui sotto i primi paragrafi; il testo intero lo trovate al link di sopra, o anche in formato pdf nella pagina Critica Militante del mio sito. Buona lettura]

    Non sono solito dare troppo peso all’etimologia delle parole, sia perché non ho una preparazione da filologo classico o da storico della lingua, sia perché è l’uso corrente semmai a interessarmi. Eppure, nel caso di autenticità mi sento di fare un’eccezione. L’etimologia di questa parola rimanda al greco αὐϑέντης, composto di autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): la definizione che se ne può estrapolare, “autentico è chi agisce secondo il suo vero sé”, ha la nettezza di una massima morale e consuona d’istinto con con riflessioni e sensazioni che vado attraversando da tempo. Questa definizione chiama in causa tre grandi sfere dell’esistenza: l’agire, cioè il comportarsi o la parte pubblica, sottoposta a scrutinio, del vivere; il vero, e con esso il presupposto che un vero esista e sia distinguibile da un non-vero; e il sé, ovvero qualcosa che ha a che fare con l’identità personale profonda, o meglio con la consapevolezza incrementale che un organismo ha di sé e della propria storia. Etica, verità e identità sono condensate in questa definizione come una novella trinità.

    È risaputo che ciascuna di queste sfere è stata messa radicalmente in crisi nel ventesimo secolo: scoperta dell’inconscio e dell’irrazionale, relativismi culturali, scuole del sospetto, ermeneutica verticale e costruttivismi vari hanno trasformato il mondo da un testo almeno parzialmente intelligibile a un groviglio di segni ingannevoli. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Maurizio Ferraris ripercorre le tappe principali di quest’attitudine facendola culminare nell’ossessione postmoderna di virgolettare ogni idea per distanziarsene ironicamente e scacciare ogni sentore di dogmatismo – o di fede.

    Oggi dovremmo renderci conto di quanto nociva quell’eredità sia stata e continui a essere per il discorso pubblico, e quindi per lo stesso vivere civile: ancora con Ferraris, “il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori” (Manifesto, p. 5). Ne è un esempio l’irresponsabile acrobatismo verbale per cui una guerra d’invasione imperialista viene riverniciata con l’eufemismo “operazione speciale”, e un plausibile genocidio in mondovisione con l’eufemismo “guerra”. La proposta del secondo Wittgenstein che sia l’uso, e non la denotazione, a stabilire il significato delle parole viene così grottescamente avverata. Recidere il legame fra le parole e loro denotazione equivale a privarle delle loro condizioni di verità – intesa qui come validazione intersoggettiva fondata sui dati d’esperienza e il più possibile estranea a preconcetti ideologici. La caduta delle condizioni di verità accelera il crollo della coesione sociale e dello scambio democratico che queste condizioni presupponevano e fondavano.

    (continua a leggere al link originale)

  • 12# Antiempirismo: Trump, Wittgeinstein e la percezione-realtà in pericolo

    12# Antiempirismo: Trump, Wittgeinstein e la percezione-realtà in pericolo

    Immagine generata dall’AI

    Ovvio che nemmeno la percezione pura e semplice, ovvero i sensi non amplificati dalla tecnologia, sia del tutto affidabile nel conoscere la realtà. Non lo è per quanto riguarda il mondo microscopico né quello macroscopico – altrimenti penseremmo la Terra ancora piatta; non lo è quando ci sono effetti d’illusione ottica, o di natura sinestetica come l’effetto McGurk, dove un labiale disallineato con ciò che udiamo ci porta a percepire un suono intermedio fra le due fonti – visiva e audio. Non lo è, o almeno non facilmente, quando si tratti di discernere i deepfake. Non lo è come base per le predizioni, come insegna Popper. E non lo è anche perché la percezione ha una forte componente top-down, cioè di predizione probabilistica, che impone schemi su quanto vediamo: può capitare, per esempio, di scambiare una macchia a stella o una foglia accartocciata per un insetto, nell’arco di decine di millisecondi che però bastano a farci trasalire.

    Tutte queste ragioni, però, non giustificano la deriva anti-empiricista sulla quale il costruttivismo e i vari postmodernismi ci hanno incanalato, e che è diventata un fenomeno di massa con i cospirazionismi, e il rifiuto di taluni a glissare su evidenze mastodontiche adducendo principi o richiamandosi a surstrati ideologici. Tale deriva non va derubricata a moda intellettuale: è nientemeno che un assalto al senso comune, e quindi alla coesione fra le persone e gli esseri, la possibilità stessa di pensarci esseri sociali e di agire di conseguenza. Se io e te vediamo la stessa sedia, possiamo dibattere se questa sedia sia comoda o meno, e quindi convergiamo su qualcosa di solido, impariamo gli uni dagli altri. Oggi lo statuto stesso di questa realtà è fragile, molti ci trascinano su questioni ontologiche: esiste o no la sedia? esiste o no la crisi climatica? siamo sicuri che non sia una montatura?

    Non è un problema recente: come scrive Maurizio Ferraris in ‘Manifesto del nuovo realismo’, ‘Dagli scettici antichi a Cartesio, sino alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, la contestazione dell’esperienza sensibile si effettua in base a una confusione tra epistemologia e ontologia: i sensi possono ingannare, dunque si revoca qualunque autorevolezza anche ontologica all’esperienza sensibile’ (p. 51).

    A volte penso che il cospirazionismo sia il capolinea stravolto di un’ermeneutica che, col postmodernismo, ci avverte di non fidarsi delle apparenze, che la verità è più profonda o più laterale. Si ha paura delle superfici, insomma, come se affidandoci a queste fossimo noi stessi superficiali. Non si vuole capire che sono queste superfici, invece, a essere altamente informative, benché non esaustive. Che gli edifici non siano solitamente a forma di piramide rovesciata ci dice qualcosa sulla loro funzione, e quindi sul loro contenuto sociale.

    Cosa accomuna, nonostante differenze abissali di quoziente intellettivo e risvolti epistemologici, il giovane Wittgenstein quando afferma a un esterrefatto Russell che non possiamo essere certi che non ci sia un rinoceronte in aula, e Donald Trump quando afferma che gli immigrati haitiani si mangiano gli animali domestici?

    Wittgenstein e Trump si fidano di un senso più alto o profondo o persuasivo che il povero, bistrattato senso comune: la logica il primo – logica che prescinde dall’empiria – e la finzione il secondo – finzione che, di nuovo, prescinde dall’empiria, perché ne crea una alternativa, più avventurosa, essendo la realtà sensibile divenuta noiosa e deprimente da quando non si hanno più gli strumenti per guardarla e sentirla.

    Forse da qui viene il mio attaccamento ai poeti che scrivono “in analogico”, senza dimenticarsi del proprio sensorium: significativamente, il primo libro importante di Philip Larkin si intitola ‘The Less Deceived’, ‘Il meno ingannato’. Un poeta realista, dall’occhio fotografico, potrà sempre ingannarsi; ma gli inganni delle ricette ideologiche sono immensamente più grandi e pericolosi rispetto a una percezione opportunamente allenata.