Se una poetica deve essere fenomenologica, non bastano i referenti concreti o sensoriali; essi devono avere una specificità che faccia pensare alla singolarità del quotidiano, non alla sua schematizzazione. Il fantomatico ”profumo del caffè” sta alla neo-neo linea lombarda come i ”muti respiri dell’assoluto” stanno a Rilke. Entrambi i sintagmi, benché agli estremi del continuum tra mondano e trascendentale, tra low-mimetic e mythic insomma, sono egualmente esangui perché sganciati dalle rispettive esperienze che cercano di proiettare senza averle attraversate, e magari nemmeno lambite. Forse ”la tazzina sa dei chicchi che furono” funzionerebbe meglio.
Ora, dopo aver letto la tesi di dottorato di Anezka Kuzmicova sulla imagery mentale, so dare a questo fenomeno una spiegazione che mi pare convincente: la studiosa – combinando fenomenologia e cognizione incarnata – asserisce che la percezione ‘dal vivo’ tende a essere molto più satura, esperienzialmente, rispetto all’immagine mentale che evochiamo quando ci danno un prompt decontestualizzato (per es. ‘pensa a una tazza di caffè’), il quale risulta appunto in una immagine schematica, o più precisamente immagine descrittiva di default (default description image) e non tridimensionale-interattiva, a meno che tale tazzina non venga inserita in un contesto senso-motorio e cinetico (per es ‘afferro la tazzina e una goccia mi ustiona’). Il profumo di caffè, etichetta generica, assomiglia a un prompt decontestualizzato.
Ne consegue che ogni poeta che voglia aderire alla realtà fenomenica-esperenziale a tutto tondo, farebbe meglio a ritornare con intensità a quello che ha davvero esperito, alla Wordsworth, e trovarne l’equivalente linguistico-retorico (ricorrendo, per esempio, al focus descrittivo, noto come granularità nella linguistica cognitiva), piuttosto che ricorrere a locuzioni prefabbricate, perché appunto la percezione è più satura dell’immaginazione (nel senso di imaging, non di imagination) del fenomenico. Per parlare semplice: io posso scrivere quando voglio di ”una bottiglia rotta”, ma devo davvero aver visto (come mi è successo di recente) un tappo dorato un po’ piegato al centro per concepirne perfino l’esistenza, e desiderare di scriverne con una forza simile alla mia percezione esperienziale (e sua rielaborazione concettuale, fermo restando che separare percezione e concezione è artificiale, non lo si fa più da decenni nelle scienze cognitive – da cui l’idea dell’iperonimo ception). Mi risulta difficile combinare parole come in un tetris fino a ottenere un’immagine esperenzialmente sfaccettata, che preservi il più possibile l’impatto extra-linguistico della cosa. Questo mi sembra davvero un argomento dove la visione post-strutturalista del linguaggio come dimensione altra, irriducibile al dato reale, ci fa una magra figura.