Ieri era il giorno dei morti e io mi chiedo in che modo è mutata, alterata forse per sempre, la nostra percezione della morte, o meglio la percezione che alcuni di noi hanno assunto nei confronti della morte dopo esserci lasciati esporre – un po’ per volontà di conoscere e un po’ per coazione dell’algoritmo – ad alluvioni quotidiane di corpi straziati, buttati in fosse comuni, resi irriconoscibili dalle violenze: dalle atrocità di Bucha e Mariupol al genocidio palestinese in diretta, alle recentissime immagini satellitari su El-Fasher, in Sudan, col beige della terra intervallato da laghi rossi visibili dall’alto. E questo per limitarsi ai civili, perché le morti militari vengono ulteriormente disumanizzate, proprio in virtù della logica alla quale partecipano e che alimentano.
Come ho fatto altre volte, riprendo un sintagma dal Montale di Ballata scritta in una clinica: “anch’io mi affaccio […] all’enorme / presenza dei morti”. Montale si riferiva ai morti della seconda guerra mondiale, a me sono venuti in mente quelli di Hiroshima e Nagazaki (“la folle cometa agostana” sembra annunciare il fungo atomico, cui si allude con perifrasi o metafora sostitutiva). E ovviamente alla malattia – prefigurazione di morte – della compagna, non ancora moglie, Drusilla Tanzi. L’affacciarsi – forse questo la critica montaliana non lo dice – sembra comunque rimandare a una posizione di relativo privilegio, o riparo, come direbbe Guido Mazzoni nel suo nuovo saggio. Un riparo, precario ma che per ora tiene, dal quale la maggior parte di noi può ancora esprimersi nei social e per strada.
Obiettare che atrocità e violenze ci sono sempre state ed eravamo noi a non vederle o a non guardarle abbastanza coglie nel segno, ma non nel senso che si vorrebbe, di relativizzare e dunque minimizzare, secondo l’orribile ma sinistramente vero adagio hegeliano che il reale è razionale: ci fa invece capire qualcosa dell’arroganza del razionalismo, che può solo concepire una conoscenza super partes, staccata dai sensi – spesso derubricati come emotivi e ingannatori – e del tutto estranea all’esperienza, alla fenomenologia (come ci ricorda Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione). Si tratta dell’arroganza che non sa indignarsi per le sofferenze particolari perché le statistiche globali parlano di un miglioramento, o perché vede gli ottant’anni di (quasi) pace in (quasi) Europa come una parentesi contronatura della storia, rifiutandosi di assolutizzare il tempo presente nella pretesa di guardare ai tempi più lunghi ma non personalmnte esperiti della storia che precede. Così però è comodo, non stare nel presente è comodo.
Ma soprattutto, questa obiezione ci fa capire quanto veniamo da una società che tratta la morte come un tabù o una specialità per medici e becchini, quanto la ghettizza come un qualcosa di vergognoso, al pari del sesso nelle distopie di 1984 o del Racconto dell’ancella, quanto la priva della sua dimensione profondamente sociale e umana, coesiva. Lo avevamo visto negli anni surreali della pandemia – quando i morti erano tracciati in grafici giornalieri e si usciva di casa in un’atmosfera da guerra fredda atomizzata, di tutti contro tutti in reciproco sospetto – e in quanto quell’evento epocale sia come evaporato dalle coscienze. Non solo, come ci ricorda Mazzoni in Senza riparo, la pandemia non ha portato alcun capolavoro o filone letterario (non che io sappia): non è riuscita, cosa che è più grave, a farci sdoganare una riflessione collettiva sulla fragilità, sull’impermanenza, che oggi servirebbe moltissimo ai paesi non ancora toccati dalle guerre. Questo rimosso ci priva degli anticorpi per sentire e capire la morte degli altri.
Ultima considerazione. Da un punto di vista logico, sembra impossibile onorare morti che non si sono conosciuti in vita, e che pertanto non occupano spazio nella memoria episodica, biografica. È lo stesso motivo per cui, in una serie televisiva, piangiamo la morte del protagonista ma non l’uccisione di una comparsa, col culmine negativo raggiunto nei film splatter e nei videogiochi dove la vita è già zombificata, cioè equiparata a corpi che stanno in piedi e si muovono, ma non odorano, non annusano, non amano. E però la testimonianza, e in mancanza di questa l’immaginazione di una pienezza troncata, dovrebbero sopperire, aiutandoci a – come ho scritto in un inedito – “tenerci stretti alla catena degli esseri, / quella degli eventi stritolandoci e basta”.
[Circa un anno e mezzo fa, su La poesia e lo spirito sono apparse alcune mie riflessioni sulla poesia, come parte della rubrica La parola ai poeti. Così l’ha descritta il suo promotore Fabrizio Centofanti, che ringrazio per l’invito: “ogni autore può condividere la sua visione della poesia, l’esperienza di scrittura, le vicende umane legate all’ambiente e via dicendo. È un’occasione per conoscere e riconoscere, la sfida di condensare in un nucleo incandescente la propria idea e il proprio vissuto di poeti”. Le puntate precedenti e successive sono leggibili qui. Buona lettura]
Negli anni mi sarò imbattuto in centinaia di definizioni o similari tentativi di accostare la poesia: in saggi, post, nelle stesse poesie a tema metaletterario. Robert Frost ha paragonato lo scrivere in versi liberi al giocare a tennis senza rete; per William Carlos Williams la poesia è una macchina di parole; Paul Valery, ci informa Valerio Magrelli in un’intervista, la associa addirittura alle feci[i]. E via dicendo. Mi fa sorridere ma non mi sorprende che sia così: di solito le definizioni tanto più proliferano – facendosi spesso metaforiche, idiosincratiche, diventando anzi un sottogenere letterario a sé stante – quanto più il fenomeno in questione appare sfuggente, eppure al tempo stesso centrale alla vita o alla vanità di chi tenta di circoscriverlo. Verrebbe da pensare alla sensazionale foto del buco nero Sagittarius A*, che non è in realtà una foto scattata direttamente ma una ricostruzione a posteriori ottenuta combinando i dati di otto telescopi sparsi nel mondo. Ma si tratterebbe di un’analogia fuorviante, perché a differenza di quelli veri, i nostri telescopi (poeti, saggisti, opinionisti, semplici lettori) non comunicano fra loro in maniera coordinata, e insomma non sembra possibile incrociare in un’immagine organica le migliaia di definizioni o suggestioni esistenti. Sarebbe inoltre un giochino retorico stucchevolmente postmoderno dire che la poesia è tutto quanto resta al margine di questa rete di definizioni o pseudo-tali.
Parte di questa difficoltà fondativa ha carattere storico: come ricorda Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna (2005), la poesia nella modernità è passata dal designare un sistema di generi letterari a un’espressione esistenziale soggettiva che si presenta come atemporale e assoluta. Mazzoni fa partire questa modernità nel 1819, data di composizione dell’Infinito leopardiano. Da lì in poi, le poetiche del romanticismo, del simbolismo, del modernismo, fino agli espressivismi più recenti, rivendicano un’irriducibile soggettività, trovandosi attraversate da una scissione fra poesia e pubblico che Stéphane Mallarmé – secondo George Steiner, nel saggio On Difficulty – portò a compimento programmatico nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi una definizione che è sembrata calzante ha i caratteri paradossali di una non-definizione: «per bizzarro che possa sembrare, una buona definizione approssimativa della poesia contemporanea potrebbe essere la seguente: quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è stato)»[ii]. Ma se non è esclusiva, una definizione abdica alla sua funzione, e quindi alla sua stessa ragion d’essere. E qualcuno obietterebbe comunque che la poesia non è nemmeno un genere letterario. Come fare, allora?
Per fortuna (mia), qui non mi viene richiesto un saggio, ma una declinazione parziale e soggettiva della poesia, basata sulla mia esperienza, liberandomi così dall’ansia di dover fornire un quadro condivisibile oltre me stesso. Posso pertanto reimpostare i termini della questione chiedendomi non cosa sia la poesia ma cosa faccia agli altri, e a me stesso in primis quale luogo unico e insostituibile della mia introspezione: spostandomi cioè dal piano essenzialista od ontologico, infinitamente problematico, a quello pragmatico e fenomenologico, più gestibile e spesso più onesto. Il passo ulteriore è quello di sostituire a «poesia» (concetto astratto, reso in inglese da poetry), l’insieme delle «poesie» (poems) che contano o hanno contato per me, incluse quelle che ho scritto: qui seguo la scia illuminista di un Giovanni Raboni, che significativamente intitolò una sua raccolta di recensioni e interventi La poesia che si fa. D’altronde, come è risaputo, il fare è già nell’etimo della poesia (poiein), e quindi per una volta fidarsi dell’etimologia e andare verso le origini – demiurgiche, artigianali? – del termine non sembra un vezzo da eruditi ma una mossa di buonsenso, di allineamento con l’esperienza vissuta.
Siccome ho già scritto altrove[iii] delle origini della mia scrittura, dei suoi moventi psicologici e – se non suonasse pretenzioso – direi esistenziali, qui mi sembra più opportuno riflettere sui miei orientamenti estetici – che sono sempre al tempo stesso etici, rimandando a una maniera di abitare l’esistente. Io mi trovo a casa in quelle poesie che fanno intuire in filigrana la totalità intellettuale e sensuale di chi le ha scritte, e che cioè rimandano a una sensibilità tridimensionale e sfaccettata, ma al tempo stesso riconoscibile nella sua costanza e fedeltà; in poesie che invitano alla rilettura, e che sono cioè l’opposto delle confezioni semiotiche usa-e-getta, degli assemblaggi a freddo tanto di stampo (pseudo)lirico quanto (pseudo)sperimentale che proliferano oggi, dove sembra che chi scrive sia indifferente a ciò che ha scritto, e viceversa (parlo dell’io autoriale profondo, non di quello social). Prodotti insomma mai toccati dalla fede, dall’investimento e dalla ferita; e spesso estranei anche all’intelligenza compositiva, che non è semplice familiarità con le tecniche di scrittura, ma capacità e disciplina di trovare la forma al sentire e, lavorandola, acuire il sentire stesso. Questa totalità densa ma ospitale è in molti grandi poeti, è per esempio in Wallace Stevens, Marianne Moore, W. H. Auden, Philip Larkin, Seamus Heaney, Czeslaw Milosz, Eugenio Montale, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Franco Fortini, fino a Cristina Annino. La si percepisce nettamente anche in poeti-cantautori come Leonard Cohen e Fabrizio De André.
In Notes Towards a Supreme Fiction, Wallace Stevens auspicava una poesia astratta (It must be abstract), mutevole (It must change) e in grado di dare piacere (It must give pleasure). Sono certamente d’accordo sugli ultimi due requisiti, mentre il primo potrebbe prestarsi a qualche equivoco: l’astrazione oggi fa pensare a qualcosa di alienato e non incarnato, di stilizzato perfino, mentre in Stevens l’invito, se lo comprendo bene, è verso un ordine superiore che tuttavia comprende ed esalta, anziché fustigarlo, il mondo sensibile. È però il secondo requisito, la mutevolezza, quello sul quale vorrei dire qualcosa in più, perché mi sembra il più ignorato e il più urgente. Oggi abbondano testi pseudopoetici che non cambiano (e non cambiano chi legge) dall’inizio alla fine: sono omogenei, dannati da subito, quasi che il codice genetico del primo verso avesse deciso come saranno tutti i versi seguenti. Non permettono di fare alcuna esperienza, visto che l’esperienza richiede una qualche forma di discontinuità che possa scolpirsi nei sensi e nella memoria. La brevità della maggior parte delle poesie è un’insidiosa alleata in questo stato di cose, perché è sulla lunga distanza che diventa necessaria, perfino inevitabile, l’articolazione di un pensiero e di una visione, dove quindi anche il detour, lo scarto, l’imprevisto, la sfumatura, acquistano peso. A proposito di sfumatura. Molta poesia oggi lascia poco o niente dopo la lettura perché in qualche modo replica in chiave estetica le polarizzazioni ideologiche (quasi sempre caricaturali e disinformate, fra l’altro) che caratterizzano il discorso comune, e che sono esplose con i social e soprattutto dopo la pandemia. Apprezzare le sfumature non è perdersi in cavillosità teoriche, ma avere allenato i sensi verso la molteplicità, e saper convivere con le ambiguità –altrui e proprie. C’è una frase bellissima di Jacques Sindral citata in Principles of Literary Theory, del grande critico I. A. Richards, che dice così: «si passa più facilmente da un estremo all’altro che da una sfumatura all’altra». Ecco, se c’è una frase che riassume lo sconfortante stato di cose presenti, è questa.
Scendendo a un livello più concreto di mutevolezza, mi attirano – e tendo a scrivere – le poesie che, come dei microdrammi, mettono in scena tensioni relazionali di vario tipo. A livello linguistico, è l’assetto pronominale a sostenere un progetto del genere. Molte poesie oggi hanno i verbi noiosamente tutti alla prima persona, e il tu al massimo è evocato come innocuo fantasma-destinatario, nella più esausta tradizione lirica. Sembra che manchino la flessibilità e la freschezza per slittare da un pronome all’altro, in ciò facendo un torto alla realtà della vita, che è relazionale e non monologico-intransitiva. Mi limito a un paio di esempi: Sereni, all’inizio della Pietà ingiusta, negli Strumenti umani, scrive «mi prendono da parte, mi catechizzano». In poche parole abbiamo un assetto dove l’io è assediato da un ‘essi’ non identificato. Gli altri ci sono sin da subito, e se l’io ha una qualche identità, essa è inscindibile dall’azione altrui, essendone anzi il paziente semantico. Analogamente, in Smentire il bianco (Arcipelago Itaca 2023), notevole libro d’esordio di Silvia Patrizio, leggiamo in una poesia dedicata a Maria Maddalena i seguenti versi: «se la sua vita è tutto e la tua / un accanto». Qui abbiamo una triangolazione deittica: l’io lirico si rivolge a un tu specifico, quello di Maria Maddalena (un tu interpretabile anche come auto-riferito), ma nello stesso verso si allude a Gesù di Nazareth, la terza persona dietro quel «sua». Le due figure sono prossime, ma il contrasto valoriale fra le loro vite, lessicalizzato rispettivamente in pronome indefinito e avverbio di luogo sostantivato («tutto» vs. «un accanto») sembra scavare uno iato incolmabile e, appunto, drammatico.
Ecco, le poesie sono vive quando rivelano delle tensioni, e il mezzo per animarle è il dramma. Il bisogno di dramma è in ultima analisi un bisogno di vigilanza, di sorveglianza, una resistenza al livellamento portato dalla saturazione di stimoli effimeri a cui siamo sottoposti e a cui ci sottoponiamo ogni giorno. Le tensioni, o crisi vere e proprie, consentono di approfondire il Sé, poiché questi si conosce solo nel prisma che sono gli altri, per riprendere il titolo di un libro di Paul Ricoeur, Sé come un altro. Per inciso, ragionare in termini di Sé, indebolirebbe le sempiterne polemiche contro l’Io o l’Ego; polemiche che sembrano fare leva su un argomento fantoccio che stravolge un fenomeno fino a renderlo irriconoscibile, semplificandolo per poterlo poi meglio attaccare. E semplificare vuol dire, per l’appunto, omettere le sfumature. L’Io non è per forza e soltanto una narcisistica soggettività borghese, ma può essere uno spazio attraversato da un sé relazionale, e quindi un microcosmo del mondo, un’argilla di tutti gli incontri e gli scontri di cui è stato testimone e complice.
Concludo mettendo alla prova queste riflessioni con una poesia inedita, parte di un progetto che intende rivisitare criticamente la mia infanzia e adolescenza nell’alessandrino, nonché il contesto storico-sociale in cui questa si inserisce. Lascio a chi legge giudicarne non solo l’eventuale riuscita, ma l’aderenza rispetto a quanto ho espresso fin qui.
La minaccia
Sul campo da tennis, distesa, la replica di King Kong non finiva più. Mi stringevo a mio padre, e alla ringhiera: quel pugno umiliò elicotteri, li dissolse nel lungo pelo. E se ora, da fermo che era, si gonfia a lenzuolo il torace?
Certi scenari eccitavano. Però, a una certa, si è scarichi. Caffè in tazze di plastica con bordo doppio, quindi. «Pare una cazzatina questo bordino, e invece… chi l’ha inventato, avrà fatto i miliardi».
Non sapevo se essere d’accordo con mio padre; se eravamo una specie esaltata dalla grana e dall’ingegno, o dalla furia per conto terzi. Il candore intorno indorava ogni cosa,
non faceva eccezione l’odore di sopruso pesante sul pianeta, le bisce sotto le piante dei piedi essiccate. Il verbo sciogliersi suggeriva al più amore casto, scarpe coi lacci, cono gelato.
[Sono una persona di pochi ma forti entusiasmi, di lenta ma intensa assimilazione. Mi è dunque tornato in mente un film che quasi un decennio fa mi colpì molto, Anomalisa di Charlie Kaufman e Ducke Johnson. Ne è traccia la recensione che ne scrissi o meglio la riflessione che mi sollecitò nel lontano 2016. Non ho scritto recensioni di altri film in vita mia, eccetto, molto più di recente, su La zona d’interesse. Forse il mio stato d’animo d’allora si accordava perfettamente a quello di Anomalisa; non ho idea quale effetto provocherebbe in me se lo riguardassi adesso. Un paio di anni più tardi avrei letto La pura superficie di Guido Mazzoni, un libro capitale e che mi pare molto in sintonia con questo film. ll testo originale della mia recensione-riflessione, che è più che altro un ritratto del protagonista del film, si trova su Nazione Indiana. Lo riporto qui per intero, dopo tutti questi anni, limitandomi ad apportare alcune minime modifiche stilistiche. Buona lettura]
Devo scrivere di Anomalisa, l’ultimo film in stop-motion del regista Charlie Kaufman, uscito nelle sale italiane nel febbraio 2016. Mi occupo di critica letteraria, so poco di cinema e non ho mai osato finora cimentarmi nella recensione di film; eppure devo scriverne, se non altro per chiarirmi il più intenso, intimo e inatteso rapimento emotivo, terremoto interiore, provato da molti mesi a questa parte. Non per una poesia, non per un romanzo, nemmeno per una persona. Per un film. La stessa intensità che scattò per Blancanieve (Pablo Berger) e per Mulholland Drive (David Lynch) ma nel caso di Anomalisa forse più introiettata, meno estetica.
A dar conto di questa intensità certamente c’entra, ma solo in parte, la mia fascinazione per il grottesco a sfondo tragico e per l’uncanny, esemplificati nella balena arenata sulla piazza di un villaggio in Werkmeister Harmonies, di Béla Tarr; certamente anche c’entra, ma ancora una volta solo in parte, la resa del sordido in chiave iperrealista, ma senza esibizione di sé, come uno Edward Hopper trasposto nella pellicola. Più ancora e finalmente c’entra il fatto che il protagonista, Michael Stone (fredda pietra, nome-emblema che può forse richiamare lo Stoner di John Williams), è un me-ombra potenziale, l’accademico che ha interrato la propria freschezza intellettuale per obbedire alla logica del successo che quella freschezza (o spregiudicatezza, non sappiamo – di Michael conosciamo il presente, non il passato) gli ha garantito. In Michael ho intravisto insomma quello che a tratti mi è sembrato di avvertire in me, perlomeno in forma embrionale e da almeno un anno a questa parte.
Michael è come avvolto da uno schermo isolante, appare morto alla vita e riduce lo scambio con gli altri al minimo indispensabile per le questioni di logistica (l’invito a una conferenza, l’alloggio…). Del linguaggio ha dimenticato non solo gli aspetti espressivi, ma anche quelli simbolici e di rappresentazione dell’esperienza. Ironia atroce per un motivational speaker di successo come lui. Paradossalmente, e quasi per una forma di difesa personale, Michael conserva un rudimento di sensibilità per l’aspetto meno strumentale del linguaggio, quello al tempo stesso più esteriore (fisico) e interiore (psicologico): la musicalità – tono, timbro, intonazione – che scorge solo in Lisa, protagonista femminile e quasi-fiamma sia pur non troppo appariscente. In questo senso, credo, va letta l’ardita ma efficacissima scelta di omologare tutte le altre voci, con effetto dapprima straniante ma che poi va sinistramente assimilandosi nello spettatore. Questa iper-sensibilità per l’aspetto musicale della lingua tradisce tuttavia un grado ennesimo di narcisismo: a Michael non interessa cosa gli altri abbiano da dirgli, non prova interesse per la loro storia e meno che mai per la loro sfera emotiva (troppo banale, prevedibile… o troppo compromettente?).
Ma Michael è prima di tutto e platealmente disinnamorato di se stesso, nauseato dai discorsi e dalle ricette per il successo che egli stesso ha ideato e che persino ora si accinge a promuovere. Lo fa vigliaccamente, come una coercizione a ripetere, un’impotenza di fronte al proprio stesso successo misurato su parametri esteriori, quantificabili in copie vendute e inviti spesati. In una scena climatica, il film mostra la caduta tragica e penosa del protagonista, quando Michael pronuncia un discorso incoerente e claudicante davanti a un pubblico che era pronto a pendere dalle sue labbra; Kaufman non concede sconti al suo poco amabile ma in fondo fin troppo umano protagonista.
L’incubo dell’essere voluti e richiesti per la propria immagine pubblica (poiché quella privata Michael l’ha nascosta anzitutto a se stesso fino al punto di rimuoverla) si concretizza, mi sembra, verso i tre quarti del film, nella sequenza onirica in cui Michael è letteralmente inseguito e accerchiato dai suoi ammiratori. La solitudine nella folla, forse la peggiore, la stessa che magistralmente Iac McEwan in Amsterdam tratteggia a proposito del direttore editoriale Vernon Halliday preso d’assalto dai suoi redattori. La stessa che Montale confessò di aver provato a Firenze, quand’era a capo del Gabinetto Viesseux (cito a memoria da un’intervista: “a Firenze ho conosciuto anche troppe persone, e la mia solitudine non era meno intensa che a Genova”).
Interessante notare che tutti questi personaggi sono uomini, e mi chiedo se questa forma della solitudine (altera, amara, scostante; non eroica, non poetica) insidi soprattutto il genere maschile, che nel suo agonismo tende a recidere i rapporti o coltivarli solo per servirsene, anziché tenerli cuciti per la bellezza del fatto in sé (insiste sul tema Virginia Woolf in Gita al faro, nel centrale episodio della cena). Mi trovo d’un tratto a pensare – dopo un breve ma vivificante viaggio in Sicilia – che questo film non sarebbe potuto nascere in terre comunitarie, perché è sintomo e denuncia di un capitalismo avanzato che riduce gli individui a monadi. Bersaglio di Kaufman è dunque, indirettamente, l’ossessione degli Stati Uniti per la produzione di manuali sul come parlare, come comportarsi e come vivere, salvo che è poi il vivere come processo e scoperta bastanti a sé stessi a essere accantonato… l’Inghilterra, dove vivo da quasi cinque anni, non sembra poi troppo distante da questa sottile distopia già presente.
Nemmeno più si sforza, Michael, di essere gentile, benché tutti o quasi lo siano nei suoi confronti – questa è anzi la sua gabbia, la sua condanna. Al tempo stesso gli manca tuttavia la tempra per essere un burbero interessante, per abbracciare interamente la causa dell’antipatia. Il suo scansare gli eccessi in negativo e in positivo è vòlto a scoraggiare l’empatia dello spettatore; la sua mancanza di intelligenza emotiva non gli viene perdonata perché compensata da chissà quali altre doti. Certo, intuiamo qualcosa della sua intelligenza libresca dal modo in cui viene riverito (l’onorifico “professore”), ma come un residuo di glorie passate, un’immagine di sé che Stone rispolvera senza farci più i conti. Come un attore chiamato a ripetere una parte che una volta doveva essere vibrante, autentica; questo Sé precedente e sepolto si riaffaccia infatti fugacemente nell’incontro con Lisa, durante il quale Michael si trasforma in un adolescente innamorato ancorché con tendenze a ipostatizzare la donna in un’idea, a non lasciarla essere e respirare per quello che lei è. Michael insomma abitò profondità che nessuno sembra saper smuovere più in lui: lo dicono l’estrema lentezza dei suoi gesti e i minimi (ma per questo tanto più significativi) movimenti del suo volto. Ecco, io credo di essere stato, per brevi istanti ma più volte, un Michael con trent’anni e con molto successo in meno. La breve prosa che riporto qui sotto l’ho scritta qualche mese prima della visione del film, a riprova di una sensibilità in potenza comune, una convergenza indesiderabile che dovrebbe agire come un allarme:
È un genio triste, nei suoi momenti migliori. Quando no, gli si spalma addosso una stoltezza sensoriale a prova di tutto fuorché del tempo, che la conosce e l’infiltra, minando il sottostante. Messo di fronte all’evidenza del cielo stellato, constata che è in alto, buio e assai grande. Al limite, detto cielo gli ricorda una giacca gravata di forfora, ma lo humour non è il tempo e pertanto non passa. Stira i muscoli facciali in una smorfia di meraviglia perché nel contesto appropriata. Distinguere gli aerei dalle stelle cadenti è facile fino alla noia.
Il sostrato emotivo, psicologico, è affine. La mia mente intertestuale non può a questo punto non viaggiare (terremoto emotivo della stessa qualità, per la stessa identica estraneità là veicolata) fino al Lupo della steppa di Herman Hesse (anche qui, il protagonista Harry è un intellettuale di mezza età) nonché al Gabriel intellettuale disadattato de I morti di Joyce, cui sembrano far da eco emotiva questi versi di Sereni: “si pensa ad essi [i versi] mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultimo giorno dell’anno”). In sostanza, si perde la meraviglia del mondo: inizialmente perché si è creativi e si ha in odio la ripetizione, ma poi perché non si è in grado di affinare lo sguardo, di trovare e accettare il bello al di fuori dell’eccezionale – tale a Michael era parsa la voce di Lisa nel tempo fuori dal tempo di una conferenza, nell’anonimo sfondo di una città che per una volta non è né New York, né Los Angeles, ma soltanto Cincinnati, tra l’anonimia e l’anomalia del titolo (morfologicamente, un blending). L’idillio bruscamente si infrange – con la voce di Lisa che torna uguale a tutte le altre in uno dei momenti più amari del film – proprio quando lei inizia a innamorarsi e a desiderare di condividere la propria vita quotidiana con Michael: colazione, progetti per il futuro… Cosa è andato per il verso sbagliato? Che la realtà si è presa la sua rivincita sulla mente tirannica e infantile di Michael; che Lisa si è rivelata essere una persona a tutto tondo, molto più sfaccettata del timbro di una voce in cui le manie depressive e l’estasi estetica di Michael avrebbero desiderato confinarla. E Lisa, personaggio positivo del film in crescendo e fino all’epilogo, dimostra infine di essere assai più matura di Michael, accettando la natura di lui e superando la propria delusione amorosa. A Michael al ritorno dalla conferenza resteranno i visi amici e forse un po’ pressanti dei parenti che l’aspettano, che non lo capiscono, e che lui ricambierà non capendoli, proprio come il Gabriel de I morti.