22# Onorare i morti?

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Ieri era il giorno dei morti e io mi chiedo in che modo è mutata, alterata forse per sempre, la nostra percezione della morte, o meglio la percezione che alcuni di noi hanno assunto nei confronti della morte dopo esserci lasciati esporre – un po’ per volontà di conoscere e un po’ per coazione dell’algoritmo – ad alluvioni quotidiane di corpi straziati, buttati in fosse comuni, resi irriconoscibili dalle violenze: dalle atrocità di Bucha e Mariupol al genocidio palestinese in diretta, alle recentissime immagini satellitari su El-Fasher, in Sudan, col beige della terra intervallato da laghi rossi visibili dall’alto. E questo per limitarsi ai civili, perché le morti militari vengono ulteriormente disumanizzate, proprio in virtù della logica alla quale partecipano e che alimentano.

Come ho fatto altre volte, riprendo un sintagma dal Montale di Ballata scritta in una clinica: “anch’io mi affaccio […] all’enorme / presenza dei morti”. Montale si riferiva ai morti della seconda guerra mondiale, a me sono venuti in mente quelli di Hiroshima e Nagazaki (“la folle cometa agostana” sembra annunciare il fungo atomico, cui si allude con perifrasi o metafora sostitutiva). E ovviamente alla malattia – prefigurazione di morte – della compagna, non ancora moglie, Drusilla Tanzi. L’affacciarsi – forse questo la critica montaliana non lo dice – sembra comunque rimandare a una posizione di relativo privilegio, o riparo, come direbbe Guido Mazzoni nel suo nuovo saggio. Un riparo, precario ma che per ora tiene, dal quale la maggior parte di noi può ancora esprimersi nei social e per strada.

Obiettare che atrocità e violenze ci sono sempre state ed eravamo noi a non vederle o a non guardarle abbastanza coglie nel segno, ma non nel senso che si vorrebbe, di relativizzare e dunque minimizzare, secondo l’orribile ma sinistramente vero adagio hegeliano che il reale è razionale: ci fa invece capire qualcosa dell’arroganza del razionalismo, che può solo concepire una conoscenza super partes, staccata dai sensi – spesso derubricati come emotivi e ingannatori – e del tutto estranea all’esperienza, alla fenomenologia (come ci ricorda Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione). Si tratta dell’arroganza che non sa indignarsi per le sofferenze particolari perché le statistiche globali parlano di un miglioramento, o perché vede gli ottant’anni di (quasi) pace in (quasi) Europa come una parentesi contronatura della storia, rifiutandosi di assolutizzare il tempo presente nella pretesa di guardare ai tempi più lunghi ma non personalmnte esperiti della storia che precede. Così però è comodo, non stare nel presente è comodo.

Ma soprattutto, questa obiezione ci fa capire quanto veniamo da una società che tratta la morte come un tabù o una specialità per medici e becchini, quanto la ghettizza come un qualcosa di vergognoso, al pari del sesso nelle distopie di 1984 o del Racconto dell’ancella, quanto la priva della sua dimensione profondamente sociale e umana, coesiva. Lo avevamo visto negli anni surreali della pandemia – quando i morti erano tracciati in grafici giornalieri e si usciva di casa in un’atmosfera da guerra fredda atomizzata, di tutti contro tutti in reciproco sospetto – e in quanto quell’evento epocale sia come evaporato dalle coscienze. Non solo, come ci ricorda Mazzoni in Senza riparo, la pandemia non ha portato alcun capolavoro o filone letterario (non che io sappia): non è riuscita, cosa che è più grave, a farci sdoganare una riflessione collettiva sulla fragilità, sull’impermanenza, che oggi servirebbe moltissimo ai paesi non ancora toccati dalle guerre. Questo rimosso ci priva degli anticorpi per sentire e capire la morte degli altri.

Ultima considerazione. Da un punto di vista logico, sembra impossibile onorare morti che non si sono conosciuti in vita, e che pertanto non occupano spazio nella memoria episodica, biografica. È lo stesso motivo per cui, in una serie televisiva, piangiamo la morte del protagonista ma non l’uccisione di una comparsa, col culmine negativo raggiunto nei film splatter e nei videogiochi dove la vita è già zombificata, cioè equiparata a corpi che stanno in piedi e si muovono, ma non odorano, non annusano, non amano. E però la testimonianza, e in mancanza di questa l’immaginazione di una pienezza troncata, dovrebbero sopperire, aiutandoci a – come ho scritto in un inedito – “tenerci stretti alla catena degli esseri, / quella degli eventi stritolandoci e basta”.


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