Categoria: Riflessioni estetiche

  • 27# Crisi della (mia) critica: riflessioni e una tipologia

    Negli ultimi mesi, ma in realtà anni, ho scritto davvero poca critica di poesia – gli anni d’oro per produttività, se non m’inganno, furono il 2011, 2013 e 2019, oltre a un lavoro di sistemazione iniziale nel 2017: la critica si concentra forse nei numeri dispari, puntuti?

    I motivi di questa mia latitanza sono molti e in buona parte banali: impegni accademici (e gestionali) aumentati, carichi didattici, il sopraggiungere di altre priorità (convivenza, matrimonio), gestione del tempo migliorabile, ispirazione per la scrittura poetica in proprio (due libri ancora inediti!), spostamento (esaurimento?) delle energie mentali verso le grandi tragedie geopolitiche, che mi hanno incupito ma anche trasformato profondamente. Accanto a tutto questo, però, insiste anche una sfiducia più circoscritta nell’attività critica in sé e per sé.

    Scrivevo su Facebook qualche mese fa: “chissà se troverò (se troveremo) il “coraggio” (oltre che il tempo, le energie e la motivazione) di fare critica veramente militante di poesia, accettando di criticare pubblicamente e anche aspramente i libri in voga come quelli sconosciuti, e compresi quelli di amici e contatti, accettando la possibilità di essere isolati o non invitati a festival o declinati – non grammaticalmente – ai vari concorsi; e farlo prendendo tutto ciò che ne viene con l’olimpica, impassibile serenità di chi sa di essere nel giusto (nell’intenzione e nella spinta, se non nelle valutazioni) nel proprio piccolo ruolo di testimone, di ponte e di filtro culturale del suo tempo. Perché se manca questo coraggio, allora diventa ipocrita criticare il tribalismo e l’omertà in seno ad altri gruppi, di qualsiasi altro gruppo, meglio se lontano e comodamente estraneo”.

    Ad allontanarmi dalla critica, mi rendo conto, sono state anche la mia stessa assenza di coraggio, le mie mezze misure, la mia rinuncia ad anteporre la vocazione integralmente critica, cocciutamente militante, alla preservazione di una cordialità di facciata dei rapporti, specie quelli occasionali (le eccezioni esistono, e restano infatti eccezioni). Come se criticare aspramente, polemizzare, dovesse portare a chissà quali fratture e conseguenze. Dico questo malgrado io venga ritenuto polemico e al tempo stesso affidabile. E pensare che mi sono spesso trattenuto! A dire il vero negli anni 2018-2019 tenevo una rubrica, ‘Botta&risposta’ sulla Balena Bianca, dove potevo essere critico, e lo ero spesso, ma il tutto era smorzato dalla possibilità di replica del formato-dialogo, e se si vuole dalla stessa cornice del titolo, che predisponeva a una certa attitudine di sfida, a cui quindi si arrivava già “vaccinati”. E ciononostante, erano talvolta veementi e piccate, e quasi sempre sulla difensiva, le risposte degli autori recensiti.

    Anche la scheda personale critica, ma non fatta poi circolare al di là dell’autore che l’abbia richiesta in privato, era in fondo un modo codardo di venire meno al proprio compito: se un libro è un libro, cioè se è pubblicato e dunque pubblico, pubblica deve anche essere la sua critica. In sostanza, non mi sentivo all’altezza del mio piglio, della mia vocazione, poiché in fondo sono sempre stato restio agli attriti interpersonali. People pleaser, diremmo in inglese. Ma quanto ancora potevo conciliare nello stesso corpo un pungiglione critico sempre all’erta con una soffice, appianante trapunta impersonale? Creare la pagina Critica su questo sito, e dettare (anche a me stesso) le mie condizioni è stato un primo modo per tentare di uscire da questa impasse.

    In realtà, la crisi è ancora più profonda, epistemologica prima ancora che etica. Ha in sostanza a che fare con un quesito che mi pose (o su cui capitò di confrontarsi con) Lorenzo Carlucci, a Roma, un anno e mezzo fa. Siamo sicuri che abbia senso valutare un’opera in base ai propri parametri estetici e non iuxta propria principia? è chiaro che se io valuto un’opera partendo dai miei presupposti estetici, nei quali sono profondamente implicato e anzi militante in quanto autore di versi in proprio, si salverà ben poco – si salveranno solo affini e sodali. Chi mi sento, un novello Croce al contrario, tanto sospettoso verso la poesia “pura” tanto quanto quella “concettuale”, saggistica o materialistica?

    La soluzione, probabilmente, risiede nel ricostruire l’intenzione dell’opera a partire dalle sue strutture e scelte retorico-stilistiche, e valutarne la riuscita entro quelle intenzioni. E, al limite, criticare l’intenzione stessa, cioè la poetica e l’operazione anziché la riuscita. Sto cercando di imparare a farlo. Al tempo stesso, anche per rimuovere la critica da un Moloch interamente valutativo, cioè per rimuoverla dall’imperio del solo giudizio, credo sia bene individuare ed esporre alcune funzioni-base, e capire dove stanno rispetto a queste la propria vocazione e la propria capacità di incidere. Propongo questa lista iniziale:

    1. CRITICO COME PONTE: il critico compie un servizio, riassumendo e contestualizzando l’opera per i lettori, anche quelli non specialisti. Non importa se in poesia non esistono lettori non specialisti: il registro che sa traghettare (divulgare) dall’opera alla società, sia mediante certe scelte discorsive che tematiche, potrebbe alla lunga ‘costruire’ e dunque avvicinare un nuovo lettore di poesia. Le note di Matteo Fantuzzi ed Erardo Gliandoli su UniversoPoesia – Strisciarossa, o quelle di Michele Ortore su Treccani per la rubrica Poesia con vista appartengono a questa schiera (collabora alla rubrica anche Dimitri Milleri, ma i suoi contributi mi sembrano avere un taglio un po’ diverso, forse più portato all’interrogazione etica delle scritture – mi sembrano cioè letture più intime, meno mediate, ma potrei sbagliarmi) .

    2. CRITICO COME TESTIMONE: il critico, nel senso più nobile del termine, testimonia alcuni percorsi autoriali. Li segue nel tempo, dà loro voce, come un attivista fa per le vittime, proprio perché crede in quel percorso, cioè crede che quel percorso mostri una via proficua non solo per la scrittura ma magari anche per come quell’opera invita il lettore a stare al mondo. Qui non è fondamentale in quanti leggeranno o no quella critica. L’importante è che esista, che qualcuno abbia visto il valore e speso parte del suo tempo a difenderlo e promuoverlo. Una questione di “giustizia interna” al critico, da un certo punto di vista. Mi accorgo ora di essere stato critico come testimone di alcune voci che ho seguito nel tempo o sulle quali mi sono speso maggiormente.

    3. CRITICO COME FILTRO: mi piace pensare alla critica anche come a un sistema di depurazione. Certo, ogni anno escono centinaia, anzi migliaia di titoli. Impossibile leggerli tutti, e pure impossibile leggerne una parte cospicua. Però, nei tempi lunghi, si fa comunque un lavoro di filtro, dove su centinaia di libri e su migliaia o decine di migliaia di poesie lette, nella memoria e nell’entusiasmo ne resteranno poche decine, e su quelle occorre puntare. Quindi il critico non è esattamente un intero sistema di depurazione, ma è un apparecchio di depurazione posto in una certa ansa di un fiume. Ha vagliato l’1% dell’esistente, e vi dà lo 0,01% che vorrebbe si salvi.

    4. CRITICO COME MEDIUM, CORPO RISONANTE: esiste un beneficio privato a fare critica, anche a prescindere dal fatto che qualcuno la legga o no: confrontarsi con varie alterità, vedere che strumento il proprio corpo è rispetto a un tipo di testo-esecutore. La metafora del ‘è nelle mie corde’ va presa letteralmente, e così per esempio fa Peter Stockwell, uno dei fondatori della poetica cognitiva, quando sviluppa il concetto di resonance(risonanza). Quindi fare critica, articolare un discorso, è un modo per capire sé, capire come (non) si risuona. Se si è un medium convincente, chi legge darà la colpa della mancata risonanza non al medium ma al testo-esecutore.

    5. CRITICO COME SCIENZIATO/SPECIALISTA: e poi c’è semplicemente il gusto della descrizione tecnica, dell’accumulo di dati e di convergenze che articoleranno la propria gran teoria stilistico-estetica. Quindi anche esercitarsi sui contemporanei che “non si sentono” a pelle è un modo per alimentare sforzi teorici di più lunga gittata, che nel mio caso alimentano poi articoli e monografie accademiche.

    Per quanto incompleta e abbozzata possa essere questa tipologia, potrà forse aiutarmi nell’esercizio critico, fornendomi delle coordinate e chiarendomi il tipo di servizio che svolgo (per me stesso, per l’autore, per i lettori) di volta in volta. Dopotutto, le personalità ansiose come la mia richiedono di grandi sistemi, di ascisse e coordinate, di classificazioni: Mark Roget – il geniale inventore vittoriano dei tesauri generali dove si compendia tutto il sistema concettuale di un’intera lingua – docet.

  • 23# “Outgrow”: on the beauty of a word

    Quando voglio pensare a qualcosa di bello – e questa voglia di bellezza diventa tanto più prepotente quanto più ci si rifiuti di distogliere sguardo e mente da orrori, atrocità, soprusi, umiliazioni anche della verità – penso spesso a una parola. Questa parola è il verbo outgrow, bellissimo per struttura e significato, e mirabilmente usato da Derek Walcott in “Midsummer Tobago” – una breve poesia imagistica e di elenco nominale, venato di nostalgia: “days I have held / days I have lost, // days that outgrow, like daughters, / my harbouring arms”.

    Penso sia intraducibile. Il senso letterale di outgrow è spesso reso in italiano in modo analitico, e dunque ingombrante, con la locuzione “diventare troppo grandi per”. E subito viene in mente un genitore che rimprovera il figlio (“sei troppo grande per queste cose ormai”), e viene così del tutto meno la forza direzionale del crescere (grow) e del prefisso spaziale out-, emancipante. Una traduzione più morfologicamente e poeticamente vicina sarebbe “trascendere” (etimologicamente, “salire oltre”) – ma è troppo connotata spiritualmente e credo perda, nel senso e nell’intesa comune, la fisicità di outgrow. Meglio forse “tracimare” o “traboccare”, che però perdono la connotazione spirituale, fortissima in outgrow, che porta in sé anche quell’inesprimibile sentimento agrodolce di aver oltrepassato ciò che si era, i propri limiti precedenti e quelli del proprio ambiente di origine (o anche dell’ambiente acquisito dopo), in parte estraniandoseli.

    Outgrow è dunque terribile nelle sue connotazioni conflittuali, poste a metà fra trascendenza e alienazione, liberazione e addio. Proprio da questo senso, di perdita e sollievo, credo derivino le scelte antonimiche di Walcott (held, lost), poste in perfetta antitesi grazie al parallelismo versale.

    Amelia Rosselli ha famosamente impiegato “fuoriuscire” con tono tra implorazione e ingiunzione (“Cercatemi e fuoriuscite”), e forse “fuoriuscire” si avvicina ad outgrow, ma resta un po’ prezioso, perdendone l’assoluta pianezza linguistica. In una traduzione di “Midsummer Tobago” incrociata online il traduttore Alessandro Panciroli opta per “oltrepassare”, altra scelta sintetica interessante perché mantiene sia la struttura morfologica che il senso fisico e spirituale dell’andare, appunto, oltre. Però “oltrepassare”, così come “fuoriuscire”, implica un movimento orizzontale nello spazio, non un rigoglio multidirezionato del corpo e della mente che travalica i propri limiti precedenti, fattisi di colpo vecchi. Ecco, “travalicare”, altra scelta possibile, così come “eccedere” (forse la mia preferita, se non fosse per quell’eco normativa-legale che la irrigimenta) – ma, di nuovo, senza quella malinconia dell’ingombro, del lasciarsi indietro qualcosa, che sento come elemento integrante, anzi fondativo di outgrow.

    Il verbo outgrow suggerisce quindi una metamorfosi al tempo stesso di liberazione e di abbandono, come la farfalla che fuoriesce o trascende o eccede o oltrepassa la crisalide. Crisalide che era salvezza in quel suo involucro, ma che sarebbe diventata asfissia, condanna. Non è solo una questione traduttiva, non in senso stretto. Forse per me è autobiografica. Quando penso a una parola bella e che descrive elementi agrodolci della mia vita, outgrow è la parola che penso.

    When I want to think about something beautiful – a desire for beauty which becomes especially forceful once you refuse to avert your gaze and mind from horrors, atrocities, abuses, humiliations, including of the truth – I often think of a word. This word is the verb “outgrow”, beautiful in structure and meaning, and admirably used by Derek Walcott in “Midsummer Tobago” – a short, imagistic poem with a list of noun phrases tinged with nostalgia: “days I have held / days I have lost, // days that outgrow, like daughters, / my harbouring arms”.

    I think it is untranslatable in Italian. The literal meaning of “outgrow” is often rendered in Italian in an analytical and therefore cumbersome way through the expression “diventare troppo grandi per” (“to become too big for”). This immediately brings to mind a parent scolding their children (“you’re too big for these things now”), and thus completely loses the directional force of growing (grow) and the emancipating feel of spatial prefix out-. A more morphologically and poetically accurate translation would be “trascendere” (etymologically, “to rise above”) – but its spiritual connotation is overarching and renounces the physicality of “outgrow”. Perhaps “tracimare” or “traboccare” would be preferable, but these verbs lose the strong spiritual connotation of “outgrow” – which also, and crucially, carries with it that impalpable bittersweet feeling of having gone beyond what you were, beyond your previous limits and the limits of your original environment (or even the environment acquired later), partly estranging yourself in the process.

    “Outgrow” is thus unforgiving in its conflicting connotations poised between transcendence and alienation, liberation and farewell. It is precisely this oxymoric sense of loss and relief that is conducive to Walcott’s antonymous choices, placed in perfect antithesis by the parallelistic structure of the lines I quoted before.

    Italian poet Amelia Rosselli famously used “fuoriuscire” with a tone between imploration and injunction (“Cercatemi e fuoriuscite”), and perhaps “fuoriuscire” is close to outgrow, but it remains a little too high in tone, losing the linguistic plainness, even poverty of “outgrow”. In a translation of “Midsummer Tobago” that I found online, the translator Alessandro Panciroli opts for “oltrepassare” (= to go beyond), another interesting synthetic choice because it preserves both the morphological structure and the physical and spiritual sense of going beyond. However, “oltrepassare”, like “fuoriuscire”, implies a horizontal movement in space, not a multidirectional flourishing of the body and mind that transcends its previous limits, which have suddenly shrunk, becoming obsolete. Here, “travalicare” (to go beyond) is another possible choice, as is “eccedere” (to exceed) (perhaps my favourite, were it not for the normative-legal echo that stiffens it) – but, again, without that melancholy of encumbrance, of leaving something behind, which I feel is a fundamental element of “outgrow”.

    The verb “outgrow” suggests a metamorphosis both liberating and abandoning, like a butterfly that emerges from, transcends, exceeds or goes beyond its chrysalis. A chrysalis that was salvation in its shell, but which would have soon turned into suffocation, condemnation. It is not just a matter of translation, not in the narrow sense of the term. Perhaps for me it is an autobiographical issue. When I think of a beautiful word that describes some bittersweet elements of my life, “outgrow” is the first word that comes to mind.

    Initial translation from Italian by DeepL, followed by the author’s changes and revisions.

  • 21# Autenticità e poesia contemporanea: alcune riflessioni

    [Un paio di settimane fa, Le parole e le cose ha ospitato una mia riflessione su autenticità, lingua e responsabilità individuale in tempi sempre più bui, da fine 1938. Ringrazio di cuore Maria Borio e Laura di Corcia per l’invito, e più in generale per la tenacia e costanza con la quale hanno tenuto acceso il dibattito su questo concetto – che solo concetto non può e non deve essere. Riporto qui sotto i primi paragrafi; il testo intero lo trovate al link di sopra, o anche in formato pdf nella pagina Critica Militante del mio sito. Buona lettura]

    Non sono solito dare troppo peso all’etimologia delle parole, sia perché non ho una preparazione da filologo classico o da storico della lingua, sia perché è l’uso corrente semmai a interessarmi. Eppure, nel caso di autenticità mi sento di fare un’eccezione. L’etimologia di questa parola rimanda al greco αὐϑέντης, composto di autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): la definizione che se ne può estrapolare, “autentico è chi agisce secondo il suo vero sé”, ha la nettezza di una massima morale e consuona d’istinto con con riflessioni e sensazioni che vado attraversando da tempo. Questa definizione chiama in causa tre grandi sfere dell’esistenza: l’agire, cioè il comportarsi o la parte pubblica, sottoposta a scrutinio, del vivere; il vero, e con esso il presupposto che un vero esista e sia distinguibile da un non-vero; e il sé, ovvero qualcosa che ha a che fare con l’identità personale profonda, o meglio con la consapevolezza incrementale che un organismo ha di sé e della propria storia. Etica, verità e identità sono condensate in questa definizione come una novella trinità.

    È risaputo che ciascuna di queste sfere è stata messa radicalmente in crisi nel ventesimo secolo: scoperta dell’inconscio e dell’irrazionale, relativismi culturali, scuole del sospetto, ermeneutica verticale e costruttivismi vari hanno trasformato il mondo da un testo almeno parzialmente intelligibile a un groviglio di segni ingannevoli. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Maurizio Ferraris ripercorre le tappe principali di quest’attitudine facendola culminare nell’ossessione postmoderna di virgolettare ogni idea per distanziarsene ironicamente e scacciare ogni sentore di dogmatismo – o di fede.

    Oggi dovremmo renderci conto di quanto nociva quell’eredità sia stata e continui a essere per il discorso pubblico, e quindi per lo stesso vivere civile: ancora con Ferraris, “il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori” (Manifesto, p. 5). Ne è un esempio l’irresponsabile acrobatismo verbale per cui una guerra d’invasione imperialista viene riverniciata con l’eufemismo “operazione speciale”, e un plausibile genocidio in mondovisione con l’eufemismo “guerra”. La proposta del secondo Wittgenstein che sia l’uso, e non la denotazione, a stabilire il significato delle parole viene così grottescamente avverata. Recidere il legame fra le parole e loro denotazione equivale a privarle delle loro condizioni di verità – intesa qui come validazione intersoggettiva fondata sui dati d’esperienza e il più possibile estranea a preconcetti ideologici. La caduta delle condizioni di verità accelera il crollo della coesione sociale e dello scambio democratico che queste condizioni presupponevano e fondavano.

    (continua a leggere al link originale)

  • 20# Dall’inizio: o della poesia come dedizione infantile

    [Ripubblico, con minimi ritocchi, un mio contributo uscito oltre tre anni fa sulla rivista online L’Estroverso, per la rubrica Dall’inizio a cura di Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto. Credo sia leggibile come il prequel dell’intervento Mutevolezza, dramma e tensione relazionale che ho ripubblicato di recente qui. Avvertenza importante: il pezzo è del 2021. Avrei veramente scoperto la storia e la politica nel 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina. Quella è stata una cesura netta, aggravata ulteriormente dopo il 7 ottobre 2023, con il massacro compiuto da Hamas e lo sterminio continuato dei palestinesi a opera di Israele che ne è seguito. Buona lettura]

    All’inizio, quindicenne, m’incensavo esaminando alcune mie poesie in terza persona, rivolgendomi a me stesso per cognome, cercando di imitare le analisi delle liriche di Montale sui libri di testo del liceo. Utilizzavo spesso i campi archetipici della luce e dell’ombra, ma mi compiacevo nel mutarli di segno, come Baudelaire i suoi fiori: il buio che protegge e rivela, la luce che acceca e stecchisce gli insetti. In sostanza, trasfondevo nella scrittura in versi quella megalomania triste, forse non priva di tenerezza, di quando, alcuni anni prima, misuravo il diametro apparente del sole e della luna col righello, cercando improbabili formule; o di quando annotai su un quaderno un paradosso che mi parve farina del mio sacco, e che poi mestamente scoprii già essere stato formulato, oltre duemila anni prima, da Zenone. Ripetevo così in me stesso goffamente un’unghia di storia intellettuale e di civiltà già accaduta. Guardavo indietro senza sospettarlo. La stessa megalomania di quando disegnavo città dall’alto e cruscotti di automobili immaginifiche, o costruivo transatlantici e grattacieli con i lego. Ne è rimasta traccia nel mio secondo libro, Non di fortuna (Italic Pequod, 2017), e più precisamente nel poemetto Le bolle azzurre:

    Il via lo dava lo scroscio dei mattoncini a terra,
    cameretta diventava un cantiere toccato tutto insieme
    e avrei esplorato la perfezione dopo
    di un transatlantico, un castello, un grattacielo
    alto più di me.

    L’ossessione per la grandezza è un tratto infantile, intransitivo perché esclude o umilia l’Altro. Una manciata di versi dopo, infatti, il testo prosegue così:

    Mia sorella metteva situazioni in bocca
    a minutissimi inquilini; io “l’ho fatto io” dicevo.
    E non faceva che decrescere,
    mattone dopo mattone decresceva
    la casetta di mia sorella…

    «Io l’ho fatto io». La costruzione irradiava il mio ingegno, la mia ambizione, il mio ingombro. L’esserci, il voler restare al centro dell’attenzione, in un’infanzia e preadolescenza di relativo benessere materiale e di sicuro benessere affettivo. Non potevo allora, bambino, dare credito al più difficile e sottile talento di chi insufflava vita in personaggi per cui la casetta era un semplice mezzo per imitare la vita; non un fine, e meno che mai lo show di un architetto demiurgico. Solo molti anni dopo avrei capito che dare voce agli altri, entrare in prospettive sul mondo divergenti dalla propria, e in sostanza riportare in vita una poesia drammatica (nel senso teatrale e mimetico del termine) sarebbe stato un percorso fecondo, sprigionante tensione e dinamicità plastica, opposta alla fascinosa compostezza di un totem testuale intransitivo. Mia sorella aveva ragione. Nella poesia appena citata, avevo voluto allegorizzare questi due poli, sinistramente accostando il me bambino ai politici che, allora come oggi, promettevano un Ponte sullo Stretto anziché impegnarsi a mettere in sicurezza le scuole pubbliche o prevenire il dissesto idrogeologico.

    Al tempo stesso non mi è difficile riconoscere che questa ossessione per la grandezza ha creato terreno fertile per una forma di fedeltà, di perseveranza e concentrazione che credo abbia accompagnato da allora il mio fare versi. Questa ossessione non mi ha mai veramente abbandonato: ho vissuto, per esempio, il progetto di dottorato (2011-2015) con un fervore da crociato, e la sensazione che le 400 pagine della monografia che ne è venuta fuori fossero un frammento appena di una totalità pensata, di un possibile che non potrò mai scrivere. La mia distrazione o absent-mindedness che spesso mi si leggevano in viso, o per cui venivo ora bonariamente ora più seccamente redarguito, era forse il recto di quell’attenzione interiore, di quella dedizione rimasta infantile.

    I miei inizi, tra il 2000 e il 2001, quando facevo l’esegeta di me stesso perché nessuno avrebbe comunque ascoltato e capito, sono stati quindi intransitivi. Mancavano gli altri, il loro mondo mancava perché, semplicemente, non c’era spazio, e forse nemmeno vedevo un modello di socialità che potessi apprendere, non sentendolo istintivamente. Mai fatto parte di squadre di calcio o di pallacanestro, e delle partite dell’oratorio estivo (debole instradamento al cattolicesimo, dalle cui formule svuotate di vero rituale sempre mi sono sentito estraniato) ricordo più la polvere e il pallone che i rapporti di amicizia, inimicizia o indifferenza tra noi giocatori improvvisati. Costruire internamente e scrivere, allora. C’era altro da fare delle domeniche? mi chiedo citando Sereni, che avrei scoperto tre o quattro anni dopo. La provincia, una sterminata domenica, continuerei sostituendo a «domenica» il suo più calzante correlativo spaziale, cioè «provincia». La provincia alessandrina dei miei primi diciott’anni come un fantasma d’immobilità che torna a visitarmi ogni volta che avverto un luogo, una relazione o una forma poetica a rischio di esaurimento:

    Nel posto da cui vengo rimane a metà
    ciò che serve. Tra l’immobile rimane
    e i giri a cerchi ristretti,
    non densi. Non si pensi al caffè analogia facile ora che
    che svendono.

    Anche questa poesia viene da Non di fortuna, libro probabilmente imperfetto ma dove ho cercato di fare i conti con il mio passato (e dunque il luogo natio) in maniera meno episodica che in Per ogni frazione – mio esordio vòlto soprattutto alla scoperta presente, negli anni più solari dell’università pavese, segnati da incontri importanti. Eppure anche in Per ogni frazione si trova una poesia “dedicata” a Valenza e dove tuttora, come un moncone di me stesso, vive e invecchia la mia famiglia. La seconda parte di Valenze recita così:

    Piuttosto non c’è da permettersi
    rancore, né dolcezza all’incontrare le panche,
    gli asili e un grigio già oltre la provincia
    ma con il conforto di non essere città.

    «Ti ha visto nascere»
    muoverebbe a rimprovero un poeta, ma se manco
    dall’ignorarsi come scelta
    si è cominciato mai.

    Estraneità reciproca, incomprensione fra io e luogo, smarrimento esistenziale in forma sedata, crepuscolare come la provincia stessa. Possono sembrare solo topoi letterari, ma ogni topos autentico non è che la forma cristallizzata di sentimenti extra- e pre- letterari, di costanti antropologiche e sociali avvertite già nell’intimo dei corpi. Ancora da Per ogni frazione, dal poemetto Sensi della piazza:

    Piace autocitarsi negli abbracci
    alle coppie di sabato in sabato a un concerto locale,
    se non per rispetto alla piazza in ottemperanza di essa.
    «A presto, amo’», e all’appuntamento l’indomani si aspettano
    (Biblioteca Comune Duomo> un mezzo giro dall’altro, un tanto per confermarsi e smentirsi.

    Non devo vergognarmi se dico che il sostrato sociologico e parte di questo immaginario hanno più a che vedere con le canzoni degli 883 che con la cosiddetta cultura alta, di cui mi nutrivo discontinuamente e più per la capacità di formalizzare l’esistente che per gli esistenti che proponeva. Non ci sono state guerre nella mia formazione, non c’è stata la Resistenza, non ci sono stati il ’68 né il ’77, e durante la Guerra del Golfo avevo solo sei anni. Ci sono state le feste dell’Unità, ma come depoliticizzate, se è vero che ne ricordo appena le luci e i palloni, e al limite un senso generico e forse posticcio di comunanza a cui non hanno fatto seguito letture politiche – e meno che mai una militanza:

    «Basta! basta con…» intona il corteo un giorno (il concordato).
    Marcia come a inizio Novecento, si rifà nelle danze ai Sessanta.
    Mi sfila accanto, senza resistervi mi sarei immesso…
    ma né padroni né borghesi, l’altra parte oggi è invisibile;
    e mimarla, «selezionare oggetto di contestazione prego»,
    è stato (sottovoce) il mio modo di completare il coro.

    Se De Angelis in anni veramente politici poteva scrivere, per distanziarsene, «fuori c’è la storia, le classi che lottano», per me la storia era solo una materia scolastica da studiare. Sentivo una plastificazione della politica nei cortei scolastici, ero dispossessato. Perfino l’11 settembre 2001 non ha lasciato alcuna traccia nel diario che allora tenevo (come ho scoperto con shock l’anno scorso, sfogliandolo) e che pullulava invece di velleità teorico-poetiche, resoconti di gite scolastiche, infatuazioni adolescenziali. Non solo quell’evento terribile e decisivo arrivava schermato; ero io stesso uno schermo anestetizzato, compensavo una certa profondità interiore (qualunque cosa questa espressione significhi) con un torpore e un’inerzia notevoli, che la scrittura poetica come pratica di ascolto e apertura mi avrebbe negli anni insegnato a stemperare, e finalmente a bucare. Il senso di colpa per quella omissione sarebbe comunque riemerso, portandomi nel 2011 o 2012 a scrivere una poesia che allude all’11 settembre (di nuovo dalle Bolle azzure in Non di fortuna), ma da una prospettiva il più privata possibile, l’unica che mi fosse nota:

    cercavo l’acqua le dodici del dodici
    settembre il momento di confine l’acqua in bottiglia
    planavo piano col palmo per non rovesciarla
    farla mia non rovesciarla
    lei offerta lei indifesa mi ricorda no non
    si parte: per la cronaca è l’undici
    per me è il dodici ma è l’undici per me
    che cado in sonno solo in sonno e atterro
    liscio sul letto secondo fisica
    salvo sul letto secondo biologia

    Nonostante la mia scrittura proceda costantemente attratta dall’apertura, dal nuovo, dall’Altro, e anche se forse questa apertura si dispiega più compiutamente nelle raccolte inedite Doveri di una costruzione (2016-2021) e La parzialità dei molti (2018-in fieri), questo fantasma d’immobilità non viene mai del tutto meno, e anzi forse si fa paradossale carburante della scoperta e della sempre maggiore inclusività dei miei testi. Questo mi sembra particolarmente vero per questo passaggio dall’inedito La parzialità dei molti, scritto nel 2018 o 2019:

    Una mattina in sommessa ebollizione, un oggi che sento di volermi
    scoccare e incistarmi in mezzo agli slogan, alle fake news,
    un cristallino fatto stalattite che affondi voi, una buona volta,
    che squarci quel bar di paese dove per sempre mi sarei bloccato.
    Facilita il processo la luce bianca e moderata del sole baltico,
    sovente in odor di grigio ma ora no, laser che senza affocare svela.
    Sentirsi vivi ma frustrati per non esserlo di più, tenaci a giorni,
    a ore alterne, con piani di conquista da andar detti a mezza voce,
    al cinema sotto le stelle, tanto timidi e intimi e radical essi sono:
    un impero in divenire costruito su una nobiltà di sperperi,
    sul dono del confronto strappato al conto che langue, figura del
    poliedro senza vertice, io lo oppongo chiaramente all’altrui,
    chiaramente. Sono, in tanti siamo, proprio questo poliedro,
    questa rete per quanto taciturna e malmessa, e voi non la vedete.
    È la nostra politica, restare vicini anche se solo a strappi, morsi
    come siamo dal tempo e le distanze, ma voi non lo vedete.
    Ma voi chi, incalzate di rimando. Non so assegnarvi un viso,
    o almeno non sempre, è frustrante. Alcuni sareste amici miei,
    alcuni parenti, altri mi avrete fatto attraversare a un semaforo,
    altri avrò ordinato un bicchiere, altri non capisco che vi muove;
    altri mi apparite al plasma, e basta. Ma state in una piramide,
    questo sì. E la base abbruttita dal peso la terra di sotto abbruttisce,
    la terra degli ultimi per come mi è dato di intuirla dal plasma.
    Ho detto poliedro, ma potevo dire rosa, cerchi concentrici
    di un sasso lanciato senza odio, ragnatela al suo primo nascere.

    Torna «quel bar di paese dove per sempre mi sarei bloccato» al quale opporre i contatti umani sempre coltivati, un «restare vicini anche se solo a strappi», un vitalismo da «nobiltà di sperperi» attizzato dalla nuova posizione geografica (i paesi Baltici), lavorativa (membro organico di un’università) ed esistenziale. Questo passo, con cui mi sembra giusto chiudere questo svelarsi un po’ sbandato, lontano dal rigore a cui punto in veste di critico, è una fuga dalle radici che non sento di avere e che tuttavia non smetto di cercare, diviso fra il terrore delle sabbie mobili, dello stagno, e la mancanza di coraggio o l’incoscienza per abbracciare un nomadismo integrale, itinerante. «Non so scegliere, né rinunciare», avevo scritto nella prosa conclusiva di Non di fortuna, e non so quanto questa affermazione tradisca più indecisione o apertura. La mia scrittura credo stia qui, in una misurazione delle distanze e nella controspinta di una ricerca di contatto, nello sguardo analitico sull’esistenza e nella tentazione calda del flusso, del trascendere sé negli altri, nei loro «cerchi concentrici / di un sasso lanciato senza odio».

    29/06/2021-01/07/2021, Vilnius

  • 19# Mutevolezza, dramma e tensione relazionale: riflessioni sulla poesia

    [Circa un anno e mezzo fa, su La poesia e lo spirito sono apparse alcune mie riflessioni sulla poesia, come parte della rubrica La parola ai poeti. Così l’ha descritta il suo promotore Fabrizio Centofanti, che ringrazio per l’invito: “ogni autore può condividere la sua visione della poesia, l’esperienza di scrittura, le vicende umane legate all’ambiente e via dicendo. È un’occasione per conoscere e riconoscere, la sfida di condensare in un nucleo incandescente la propria idea e il proprio vissuto di poeti”. Le puntate precedenti e successive sono leggibili qui. Buona lettura]

    Negli anni mi sarò imbattuto in centinaia di definizioni o similari tentativi di accostare la poesia: in saggi, post, nelle stesse poesie a tema metaletterario. Robert Frost ha paragonato lo scrivere in versi liberi al giocare a tennis senza rete; per William Carlos Williams la poesia è una macchina di parole; Paul Valery, ci informa Valerio Magrelli in un’intervista, la associa addirittura alle feci[i]. E via dicendo. Mi fa sorridere ma non mi sorprende che sia così: di solito le definizioni tanto più proliferano – facendosi spesso metaforiche, idiosincratiche, diventando anzi un sottogenere letterario a sé stante – quanto più il fenomeno in questione appare sfuggente, eppure al tempo stesso centrale alla vita o alla vanità di chi tenta di circoscriverlo. Verrebbe da pensare alla sensazionale foto del buco nero Sagittarius A*, che non è in realtà una foto scattata direttamente ma una ricostruzione a posteriori ottenuta combinando i dati di otto telescopi sparsi nel mondo. Ma si tratterebbe di un’analogia fuorviante, perché a differenza di quelli veri, i nostri telescopi (poeti, saggisti, opinionisti, semplici lettori) non comunicano fra loro in maniera coordinata, e insomma non sembra possibile incrociare in un’immagine organica le migliaia di definizioni o suggestioni esistenti. Sarebbe inoltre un giochino retorico stucchevolmente postmoderno dire che la poesia è tutto quanto resta al margine di questa rete di definizioni o pseudo-tali.

    Parte di questa difficoltà fondativa ha carattere storico: come ricorda Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna (2005), la poesia nella modernità è passata dal designare un sistema di generi letterari a un’espressione esistenziale soggettiva che si presenta come atemporale e assoluta. Mazzoni fa partire questa modernità nel 1819, data di composizione dell’Infinito leopardiano. Da lì in poi, le poetiche del romanticismo, del simbolismo, del modernismo, fino agli espressivismi più recenti, rivendicano un’irriducibile soggettività, trovandosi attraversate da una scissione fra poesia e pubblico che Stéphane Mallarmé – secondo George Steiner, nel saggio On Difficulty – portò a compimento programmatico nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi una definizione che è sembrata calzante ha i caratteri paradossali di una non-definizione: «per bizzarro che possa sembrare, una buona definizione approssimativa della poesia contemporanea potrebbe essere la seguente: quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è stato)»[ii]. Ma se non è esclusiva, una definizione abdica alla sua funzione, e quindi alla sua stessa ragion d’essere. E qualcuno obietterebbe comunque che la poesia non è nemmeno un genere letterario. Come fare, allora?

    Per fortuna (mia), qui non mi viene richiesto un saggio, ma una declinazione parziale e soggettiva della poesia, basata sulla mia esperienza, liberandomi così dall’ansia di dover fornire un quadro condivisibile oltre me stesso. Posso pertanto reimpostare i termini della questione chiedendomi non cosa sia la poesia ma cosa faccia agli altri, e a me stesso in primis quale luogo unico e insostituibile della mia introspezione: spostandomi cioè dal piano essenzialista od ontologico, infinitamente problematico, a quello pragmatico e fenomenologico, più gestibile e spesso più onesto. Il passo ulteriore è quello di sostituire a «poesia» (concetto astratto, reso in inglese da poetry), l’insieme delle «poesie» (poems) che contano o hanno contato per me, incluse quelle che ho scritto: qui seguo la scia illuminista di un Giovanni Raboni, che significativamente intitolò una sua raccolta di recensioni e interventi La poesia che si fa. D’altronde, come è risaputo, il fare è già nell’etimo della poesia (poiein), e quindi per una volta fidarsi dell’etimologia e andare verso le origini – demiurgiche, artigianali? – del termine non sembra un vezzo da eruditi ma una mossa di buonsenso, di allineamento con l’esperienza vissuta.

    Siccome ho già scritto altrove[iii] delle origini della mia scrittura, dei suoi moventi psicologici e – se non suonasse pretenzioso – direi esistenziali, qui mi sembra più opportuno riflettere sui miei orientamenti estetici – che sono sempre al tempo stesso etici, rimandando a una maniera di abitare l’esistente. Io mi trovo a casa in quelle poesie che fanno intuire in filigrana la totalità intellettuale e sensuale di chi le ha scritte, e che cioè rimandano a una sensibilità tridimensionale e sfaccettata, ma al tempo stesso riconoscibile nella sua costanza e fedeltà; in poesie che invitano alla rilettura, e che sono cioè l’opposto delle confezioni semiotiche usa-e-getta, degli assemblaggi a freddo tanto di stampo (pseudo)lirico quanto (pseudo)sperimentale che proliferano oggi, dove sembra che chi scrive sia indifferente a ciò che ha scritto, e viceversa (parlo dell’io autoriale profondo, non di quello social). Prodotti insomma mai toccati dalla fede, dall’investimento e dalla ferita; e spesso estranei anche all’intelligenza compositiva, che non è semplice familiarità con le tecniche di scrittura, ma capacità e disciplina di trovare la forma al sentire e, lavorandola, acuire il sentire stesso. Questa totalità densa ma ospitale è in molti grandi poeti, è per esempio in Wallace Stevens, Marianne Moore, W. H. Auden, Philip Larkin, Seamus Heaney, Czeslaw Milosz, Eugenio Montale, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Franco Fortini, fino a Cristina Annino. La si percepisce nettamente anche in poeti-cantautori come Leonard Cohen e Fabrizio De André.

    In Notes Towards a Supreme Fiction, Wallace Stevens auspicava una poesia astratta (It must be abstract), mutevole (It must change) e in grado di dare piacere (It must give pleasure). Sono certamente d’accordo sugli ultimi due requisiti, mentre il primo potrebbe prestarsi a qualche equivoco: l’astrazione oggi fa pensare a qualcosa di alienato e non incarnato, di stilizzato perfino, mentre in Stevens l’invito, se lo comprendo bene, è verso un ordine superiore che tuttavia comprende ed esalta, anziché fustigarlo, il mondo sensibile. È però il secondo requisito, la mutevolezza, quello sul quale vorrei dire qualcosa in più, perché mi sembra il più ignorato e il più urgente. Oggi abbondano testi pseudopoetici che non cambiano (e non cambiano chi legge) dall’inizio alla fine: sono omogenei, dannati da subito, quasi che il codice genetico del primo verso avesse deciso come saranno tutti i versi seguenti. Non permettono di fare alcuna esperienza, visto che l’esperienza richiede una qualche forma di discontinuità che possa scolpirsi nei sensi e nella memoria. La brevità della maggior parte delle poesie è un’insidiosa alleata in questo stato di cose, perché è sulla lunga distanza che diventa necessaria, perfino inevitabile, l’articolazione di un pensiero e di una visione, dove quindi anche il detour, lo scarto, l’imprevisto, la sfumatura, acquistano peso. A proposito di sfumatura. Molta poesia oggi lascia poco o niente dopo la lettura perché in qualche modo replica in chiave estetica le polarizzazioni ideologiche (quasi sempre caricaturali e disinformate, fra l’altro) che caratterizzano il discorso comune, e che sono esplose con i social e soprattutto dopo la pandemia. Apprezzare le sfumature non è perdersi in cavillosità teoriche, ma avere allenato i sensi verso la molteplicità, e saper convivere con le ambiguità –altrui e proprie. C’è una frase bellissima di Jacques Sindral citata in Principles of Literary Theory, del grande critico I. A. Richards, che dice così: «si passa più facilmente da un estremo all’altro che da una sfumatura all’altra». Ecco, se c’è una frase che riassume lo sconfortante stato di cose presenti, è questa.

    Scendendo a un livello più concreto di mutevolezza, mi attirano – e tendo a scrivere – le poesie che, come dei microdrammi, mettono in scena tensioni relazionali di vario tipo. A livello linguistico, è l’assetto pronominale a sostenere un progetto del genere. Molte poesie oggi hanno i verbi noiosamente tutti alla prima persona, e il tu al massimo è evocato come innocuo fantasma-destinatario, nella più esausta tradizione lirica. Sembra che manchino la flessibilità e la freschezza per slittare da un pronome all’altro, in ciò facendo un torto alla realtà della vita, che è relazionale e non monologico-intransitiva. Mi limito a un paio di esempi: Sereni, all’inizio della Pietà ingiusta, negli Strumenti umani, scrive «mi prendono da parte, mi catechizzano». In poche parole abbiamo un assetto dove l’io è assediato da un ‘essi’ non identificato. Gli altri ci sono sin da subito, e se l’io ha una qualche identità, essa è inscindibile dall’azione altrui, essendone anzi il paziente semantico. Analogamente, in Smentire il bianco (Arcipelago Itaca 2023), notevole libro d’esordio di Silvia Patrizio, leggiamo in una poesia dedicata a Maria Maddalena i seguenti versi: «se la sua vita è tutto e la tua / un accanto». Qui abbiamo una triangolazione deittica: l’io lirico si rivolge a un tu specifico, quello di Maria Maddalena (un tu interpretabile anche come auto-riferito), ma nello stesso verso si allude a Gesù di Nazareth, la terza persona dietro quel «sua». Le due figure sono prossime, ma il contrasto valoriale fra le loro vite, lessicalizzato rispettivamente in pronome indefinito e avverbio di luogo sostantivato («tutto» vs. «un accanto») sembra scavare uno iato incolmabile e, appunto, drammatico.

    Ecco, le poesie sono vive quando rivelano delle tensioni, e il mezzo per animarle è il dramma. Il bisogno di dramma è in ultima analisi un bisogno di vigilanza, di sorveglianza, una resistenza al livellamento portato dalla saturazione di stimoli effimeri a cui siamo sottoposti e a cui ci sottoponiamo ogni giorno. Le tensioni, o crisi vere e proprie, consentono di approfondire il Sé, poiché questi si conosce solo nel prisma che sono gli altri, per riprendere il titolo di un libro di Paul RicoeurSé come un altro. Per inciso, ragionare in termini di Sé, indebolirebbe le sempiterne polemiche contro l’Io o l’Ego; polemiche che sembrano fare leva su un argomento fantoccio che stravolge un fenomeno fino a renderlo irriconoscibile, semplificandolo per poterlo poi meglio attaccare. E semplificare vuol dire, per l’appunto, omettere le sfumature. L’Io non è per forza e soltanto una narcisistica soggettività borghese, ma può essere uno spazio attraversato da un sé relazionale, e quindi un microcosmo del mondo, un’argilla di tutti gli incontri e gli scontri di cui è stato testimone e complice.

    Concludo mettendo alla prova queste riflessioni con una poesia inedita, parte di un progetto che intende rivisitare criticamente la mia infanzia e adolescenza nell’alessandrino, nonché il contesto storico-sociale in cui questa si inserisce. Lascio a chi legge giudicarne non solo l’eventuale riuscita, ma l’aderenza rispetto a quanto ho espresso fin qui.

    La minaccia

    Sul campo da tennis, distesa, la replica di King Kong
    non finiva più. Mi stringevo a mio padre, e alla ringhiera:
    quel pugno umiliò elicotteri, li dissolse nel lungo pelo.
    E se ora, da fermo che era, si gonfia a lenzuolo il torace?

    Certi scenari eccitavano. Però, a una certa, si è scarichi.
    Caffè in tazze di plastica con bordo doppio, quindi.
    «Pare una cazzatina questo bordino, e invece…
    chi l’ha inventato, avrà fatto i miliardi».

    Non sapevo se essere d’accordo con mio padre;
    se eravamo una specie esaltata dalla grana
    e dall’ingegno, o dalla furia per conto terzi.
    Il candore intorno indorava ogni cosa,

    non faceva eccezione l’odore di sopruso
    pesante sul pianeta, le bisce sotto le piante
    dei piedi essiccate. Il verbo sciogliersi suggeriva
    al più amore casto, scarpe coi lacci, cono gelato.

    Vilnius, 11-12/09/23

    [i] Valerio Magrelli, La poesia è un’Urgenza. Intervista di Grazia Calanna. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/valerio-magrelli-la-poesia-e-unurgenza/

    [ii] Tommaso Di Dio, Poesie dell’Italia contemporanea (1971-2021), Milano, Il Saggiatore, p. 9.

    [iii] Davide Castiglione, Dall’inizio. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/dallinizio-davide-castiglione/

  • 18# “Anomalisa”, o la camicia di forza della normalità

    [Sono una persona di pochi ma forti entusiasmi, di lenta ma intensa assimilazione. Mi è dunque tornato in mente un film che quasi un decennio fa mi colpì molto, Anomalisa di Charlie Kaufman e Ducke Johnson. Ne è traccia la recensione che ne scrissi o meglio la riflessione che mi sollecitò nel lontano 2016. Non ho scritto recensioni di altri film in vita mia, eccetto, molto più di recente, su La zona d’interesse. Forse il mio stato d’animo d’allora si accordava perfettamente a quello di Anomalisa; non ho idea quale effetto provocherebbe in me se lo riguardassi adesso. Un paio di anni più tardi avrei letto La pura superficie di Guido Mazzoni, un libro capitale e che mi pare molto in sintonia con questo film. ll testo originale della mia recensione-riflessione, che è più che altro un ritratto del protagonista del film, si trova su Nazione Indiana. Lo riporto qui per intero, dopo tutti questi anni, limitandomi ad apportare alcune minime modifiche stilistiche. Buona lettura]

    Devo scrivere di Anomalisa, l’ultimo film in stop-motion del regista Charlie Kaufman, uscito nelle sale italiane nel febbraio 2016. Mi occupo di critica letteraria, so poco di cinema e non ho mai osato finora cimentarmi nella recensione di film; eppure devo scriverne, se non altro per chiarirmi il più intenso, intimo e inatteso rapimento emotivo, terremoto interiore, provato da molti mesi a questa parte. Non per una poesia, non per un romanzo, nemmeno per una persona. Per un film. La stessa intensità che scattò per Blancanieve (Pablo Berger) e per Mulholland Drive (David Lynch) ma nel caso di Anomalisa forse più introiettata, meno estetica.

    A dar conto di questa intensità certamente c’entra, ma solo in parte, la mia fascinazione per il grottesco a sfondo tragico e per l’uncanny, esemplificati nella balena arenata sulla piazza di un villaggio in Werkmeister Harmonies, di Béla Tarr; certamente anche c’entra, ma ancora una volta solo in parte, la resa del sordido in chiave iperrealista, ma senza esibizione di sé, come uno Edward Hopper trasposto nella pellicola. Più ancora e finalmente c’entra il fatto che il protagonista, Michael Stone (fredda pietra, nome-emblema che può forse richiamare lo Stoner di John Williams), è un me-ombra potenziale, l’accademico che ha interrato la propria freschezza intellettuale per obbedire alla logica del successo che quella freschezza (o spregiudicatezza, non sappiamo – di Michael conosciamo il presente, non il passato) gli ha garantito. In Michael ho intravisto insomma quello che a tratti mi è sembrato di avvertire in me, perlomeno in forma embrionale e da almeno un anno a questa parte.

    Michael è come avvolto da uno schermo isolante, appare morto alla vita e riduce lo scambio con gli altri al minimo indispensabile per le questioni di logistica (l’invito a una conferenza, l’alloggio…). Del linguaggio ha dimenticato non solo gli aspetti espressivi, ma anche quelli simbolici e di rappresentazione dell’esperienza. Ironia atroce per un motivational speaker di successo come lui. Paradossalmente, e quasi per una forma di difesa personale, Michael conserva un rudimento di sensibilità per l’aspetto meno strumentale del linguaggio, quello al tempo stesso più esteriore (fisico) e interiore (psicologico): la musicalità – tono, timbro, intonazione – che scorge solo in Lisa, protagonista femminile e quasi-fiamma sia pur non troppo appariscente. In questo senso, credo, va letta l’ardita ma efficacissima scelta di omologare tutte le altre voci, con effetto dapprima straniante ma che poi va sinistramente assimilandosi nello spettatore. Questa iper-sensibilità per l’aspetto musicale della lingua tradisce tuttavia un grado ennesimo di narcisismo: a Michael non interessa cosa gli altri abbiano da dirgli, non prova interesse per la loro storia e meno che mai per la loro sfera emotiva (troppo banale, prevedibile… o troppo compromettente?).

    Ma Michael è prima di tutto e platealmente disinnamorato di se stesso, nauseato dai discorsi e dalle ricette per il successo che egli stesso ha ideato e che persino ora si accinge a promuovere. Lo fa vigliaccamente, come una coercizione a ripetere, un’impotenza di fronte al proprio stesso successo misurato su parametri esteriori, quantificabili in copie vendute e inviti spesati. In una scena climatica, il film mostra la caduta tragica e penosa del protagonista, quando Michael pronuncia un discorso incoerente e claudicante davanti a un pubblico che era pronto a pendere dalle sue labbra; Kaufman non concede sconti al suo poco amabile ma in fondo fin troppo umano protagonista.

    L’incubo dell’essere voluti e richiesti per la propria immagine pubblica (poiché quella privata Michael l’ha nascosta anzitutto a se stesso fino al punto di rimuoverla) si concretizza, mi sembra, verso i tre quarti del film, nella sequenza onirica in cui Michael è letteralmente inseguito e accerchiato dai suoi ammiratori. La solitudine nella folla, forse la peggiore, la stessa che magistralmente Iac McEwan in Amsterdam tratteggia a proposito del direttore editoriale Vernon Halliday preso d’assalto dai suoi redattori. La stessa che Montale confessò di aver provato a Firenze, quand’era a capo del Gabinetto Viesseux (cito a memoria da un’intervista: “a Firenze ho conosciuto anche troppe persone, e la mia solitudine non era meno intensa che a Genova”).

    Interessante notare che tutti questi personaggi sono uomini, e mi chiedo se questa forma della solitudine (altera, amara, scostante; non eroica, non poetica) insidi soprattutto il genere maschile, che nel suo agonismo tende a recidere i rapporti o  coltivarli solo per servirsene, anziché tenerli cuciti per la bellezza del fatto in sé (insiste sul tema Virginia Woolf in Gita al faro, nel centrale episodio della cena). Mi trovo d’un tratto a pensare – dopo un breve ma vivificante viaggio in Sicilia – che questo film non sarebbe potuto nascere in terre comunitarie, perché è sintomo e denuncia di un capitalismo avanzato che riduce gli individui a monadi. Bersaglio di Kaufman è dunque, indirettamente, l’ossessione degli Stati Uniti per la produzione di manuali sul come parlare, come comportarsi e come vivere, salvo che è poi il vivere come processo e scoperta bastanti a sé stessi a essere accantonato… l’Inghilterra, dove vivo da quasi cinque anni, non sembra poi troppo distante da questa sottile distopia già presente.

    Nemmeno più si sforza, Michael, di essere gentile, benché tutti o quasi lo siano nei suoi confronti – questa è anzi la sua gabbia, la sua condanna. Al tempo stesso gli manca tuttavia la tempra per essere un burbero interessante, per abbracciare interamente la causa dell’antipatia. Il suo scansare gli eccessi in negativo e in positivo è vòlto a scoraggiare l’empatia dello spettatore; la sua mancanza di intelligenza emotiva non gli viene perdonata perché compensata da chissà quali altre doti. Certo, intuiamo qualcosa della sua intelligenza libresca dal modo in cui viene riverito (l’onorifico “professore”), ma come un residuo di glorie passate, un’immagine di sé che Stone rispolvera senza farci più i conti. Come un attore chiamato a ripetere una parte che una volta doveva essere vibrante, autentica; questo Sé precedente e sepolto si riaffaccia infatti fugacemente nell’incontro con Lisa, durante il quale Michael si trasforma in un adolescente innamorato ancorché con tendenze a ipostatizzare la donna in un’idea, a non lasciarla essere e respirare per quello che lei è. Michael insomma abitò profondità che nessuno sembra saper smuovere più in lui: lo dicono l’estrema lentezza dei suoi gesti e i minimi (ma per questo tanto più significativi) movimenti del suo volto. Ecco, io credo di essere stato, per brevi istanti ma più volte, un Michael con trent’anni e con molto successo in meno. La breve prosa che riporto qui sotto l’ho scritta qualche mese prima della visione del film, a riprova di una sensibilità in potenza comune, una convergenza indesiderabile che dovrebbe agire come un allarme:

    È un genio triste, nei suoi momenti migliori. Quando no, gli si spalma addosso una stoltezza sensoriale a prova di tutto fuorché del tempo, che la conosce e l’infiltra, minando il sottostante. Messo di fronte all’evidenza del cielo stellato, constata che è in alto, buio e assai grande. Al limite, detto cielo gli ricorda una giacca gravata di forfora, ma lo humour non è il tempo e pertanto non passa. Stira i muscoli facciali in una smorfia di meraviglia perché nel contesto appropriata. Distinguere gli aerei dalle stelle cadenti è facile fino alla noia.

    Il sostrato emotivo, psicologico, è affine. La mia mente intertestuale non può a questo punto non viaggiare (terremoto emotivo della stessa qualità, per la stessa identica estraneità là veicolata) fino al Lupo della steppa di Herman Hesse (anche qui, il protagonista Harry è un intellettuale di mezza età) nonché al Gabriel intellettuale disadattato de I morti di Joyce, cui sembrano far da eco emotiva questi versi di Sereni: “si pensa ad essi [i versi] mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultimo giorno dell’anno”). In sostanza, si perde la meraviglia del mondo: inizialmente perché si è creativi e si ha in odio la ripetizione, ma poi perché non si è in grado di affinare lo sguardo, di trovare e accettare il bello al di fuori dell’eccezionale – tale a Michael era parsa la voce di Lisa nel tempo fuori dal tempo di una conferenza, nell’anonimo sfondo di una città che per una volta non è né New York, né Los Angeles, ma soltanto Cincinnati, tra l’anonimia e l’anomalia del titolo (morfologicamente, un blending). L’idillio bruscamente si infrange – con la voce di Lisa che torna uguale a tutte le altre in uno dei momenti più amari del film – proprio quando lei inizia a innamorarsi e a desiderare di condividere la propria vita quotidiana con Michael: colazione, progetti per il futuro… Cosa è andato per il verso sbagliato? Che la realtà si è presa la sua rivincita sulla mente tirannica e infantile di Michael; che Lisa si è rivelata essere una persona a tutto tondo, molto più sfaccettata del timbro di una voce in cui le manie depressive e l’estasi estetica di Michael avrebbero desiderato confinarla. E Lisa, personaggio positivo del film in crescendo e fino all’epilogo, dimostra infine di essere assai più matura di Michael, accettando la natura di lui e superando la propria delusione amorosa. A Michael al ritorno dalla conferenza resteranno i visi amici e forse un po’ pressanti dei parenti che l’aspettano, che non lo capiscono, e che lui ricambierà non capendoli, proprio come il Gabriel de I morti.

  • 17# Su “Double Negative Pyramid” di Sol Lewitt

    Vilnius, Europe Park. Quella che vedete in foto è la Doppia piramide negativa (Double Negative Pyramid), di Sol LeWitt, artista americano legato all’arte concettuale e al minimalismo.

    La piramide è doppia perché si riflette in un laghetto artificiale, anche se questa foto non lo mostra. E’ negativa nel senso fotografico del termine perché è il calco di una piramide, cioè la piramide è lo spazio scavato.

    Mi piace come questa scultura giochi – deconstruendolo – con il concetto di potere. La piramide è ovviamente il simbolo non solo dei faraoni egizi, e quindi di un’autorità indiscutibile e divina; ma anche la rappresentazione grafica della gerarchia, delle disuguaglianze. Qui però è negata, scavata, come la terra che si ritrae nell’orrore della caduta di Lucifero; la punta è letteralmente il livello più basso. Inoltre, il suo minimalismo geometrico anni ’60 non è poi lontano dal modernismo fascista e non solo anni ’30 – quello dell’EUR di cui ho scritto nel post precedente. Ma letteralmente lo svuota, lo muta di segno, non celebrando un bel niente. Le linee nette, geometriche, contrastano poi vigorosamente con quelle imprevedibili e flessuose del bosco circostante.

    Non solo: la scultura invita, proprio a livello di interazione fisica (di ‘affordances’) a scalarla, come ho fatto io. Dà ancora un’illusione di potere perché può ricordare un trono. Solo che le sue dimensioni mi fanno apparire come un ragnetto o una macchia nel mezzo, frustrando quindi questa vanità. ‘Pull down thy vanity’, ingiungeva Pound a sé stesso. Dovremmo farlo più spesso, specie noi uomini (non tutti) dalle tendenze egotiche e narcisiste.

  • 16# Roma: EUR o della penitenza

    Attraversare gli spazi dechirichiani dell’EUR non è una passeggiata. Letteralmente: somiglia più al pellegrinaggio in un rovescio di Purgatorio, a una catabasi penitenziale nell’ottusità autoritaria e infantile di potenza (“un leader e l’infante che lo tiene per mano”, scrissi in un vecchio verso), che schiaccia le persone sotto edifici imperiosi e uniformi. Snobbati da turisti e da locali, veramente deserti: sono i palazzi meno che secolari dell’EUR le vere rovine, il rimosso del nostro passato recente, e non i fori imperiali che prosperano del commercio quotidiano col turismo e dove la parola “impero” può essere pronunciata senza sensi di colpa o nostalgie conservatrici: a ripulirla e smerigliarla provvedono già i millenni trascorsi (il tempo rifatto gentiluomo), nonché gli ultimi decenni di gadget e film epici, una presunta grandezza che sa d’evasione. I sogni espansionistici e gli slogan gravemente incisi sui frontoni di questi rettangoli modernisti mi arrivano addosso come voci ridicole eppure oggi nuovamente rivendicate da altri Stati, nell’ossessione tribale per la terra che si controlla senza saperla vivere, ovvero ascoltare. Vale infine la pena di elencare alcuni di quei minimi attori che rallentano il passo e lo aggravano sopra un piano orizzontale ma faticoso: l’erba riarsa, l’afa stagnante che in altre parti di Roma sembra convertirsi in un caldo secco e schietto, i vetri rotti sulla scalinata del Palazzo della Civiltà Italiana. Pochi nomi, per inciso, suonano più antifrastici di questo; il racconto “Davanti alla Legge” di Kafka potrebbe benissimo essere ambientato qui, davanti alla scalinata di questo edificio recintato, chiuso al pubblico, dalle attività ibernate o mai avviate, con all’ingresso una guardia come una macchietta inespressiva; guardia che quando mi sono avvicinato e ho chiesto se fosse possibile entrare in questo grande cubo, mi ha risposto quasi senza fastidio e quasi senza sorpresa, e – va da sé – senza umorismo.

  • 14# Lirismo che dimentica il mondo

    2–3 minuti

    L’effetto spesso lezioso o pretenzioso di tanto diffuso lirismo deriva da un desiderio di sintesi che in realtà non è condensazione di vissuto, ma sua mutilazione: ci si illude, cioè, di attingere al sublime non per una via d’ascesi che parta dall’ascolto e dall’attraversamento del sensibile e della propria psiche (come, massimamente, in Emily Dickinson) ma per via diretta, come se si fosse graziati da una privilegiata telepatia con l’iperuranio. I risultati sono quasi sempre poverissimi, plastificati, proprio perché spogliati da ogni attrito della vita fenomenologica, che è anche sangue, sudore, attrito. Purificazione non per fuoco, dunque, ma igiene schifiltosa, anche latamente violenta.

    Dimostro questo assunto partendo da due versi del poeta cubano Antonio José Puente. Sono due versi che amo molto e mi porto dietro da anni. Sono tratti dalla poesia Sei minuti di conversazione con l’estero, nell’antologia di poesia cubana L’isola che canta, che recensii oltre dieci anni fa qui.

    “ci siamo assottigliati fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    Nella poesia, questa clausola è l’amara realizzazione del poeta, che avverte la sopraggiunta estraneità nei confronti dell’ex amata: una situazione in cui molti di noi si saranno trovati, quando il legame sentimentale si scioglie, ma perdura comunque un rapporto cordiale. Il “chiedere del clima” è il classico esempio di small talk che si fa con gli sconosciuti, e qui indica estraneità e imbarazzo. L’assottigliamento è un appiattimento, e il lettore può solo immaginare l’entità del tutto diversa delle conversazioni fra i due amanti in tempi migliori. Trovo questi versi molto riusciti non solo perché intercettano una regione emotiva complessa con economia di mezzi, ma anche perché la rendono palpabile, immettendola nella situazione della telefonata.

    Imitando il poetese dominante, è possibile piano piano rovinare la bellezza di questi versi in maniera graduale ‘mutilandoli’ secondo una derivazione che conduca a un lirismo più astratto, cioè decontestualizzato. Ecco come:

    1. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    (un po’ piu’ lirico – sparisce l’ancoraggio deittico del passato prossimo in favore di un presente astorico, assoluto – la situazione è ciclica, perpetua, irreversibile dunque)

    2. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci”

    (piu’ lirico ancora – sparisce la relativa di circostanza)

    3. “ci assottigliamo fino a queste voci”

    (piu’ scorciato-ellittico, la proposizione finale diventa un semplice sintagma)

    4. “ci assottigliamo fino alla voce”

    (cade l’ancoraggio del deittico di prossimità “queste”, la voce si fa grammaticalmente singolare e dunque diventa un concetto astratto”, non piu’ legato a una conversazione specifica; le voci perdono la grana timbrica che potevamo immaginare)

    5. “l’assottigliarsi fino alla voce”

    (cade il “noi” in favore della forma impersonale, l’umano è finalmente estromesso in puro evento esterno)

    Ecco, molta poesia d’oggi pratica le soluzioni 3, 4 o 5, anziché l’originale o le sue versioni leggermente liricizzate, 1 e 2. Non c’è da stupirsi: la sospensione della realtà ‘sporca e cattiva’ è tornata in voga almeno dal postmoderno, e adesso la stiamo pagando tutta nei negazionismi e nelle manipolazioni che ci stanno intorno. La poesia resa astratta ne è appena uno dei sintomi, rumore di fondo nell’egemonia del puramente verbale.

  • 13# La cecità dello specialista. Contro una critica a “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer

    8–12 minuti

    Di recente mi sono imbattuto in alcune recensioni su La zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer – film da rivedere perché a rilascio graduale, con quella sua capacità di insinuare residui e grumi nello spettatore, che dovrà tornare a farvi i conti a pellicola conclusa. Com’è giusto che faccia l’arte in generale.

    Non sono un critico cinematografico né tantomeno un esperto di Shoah, ma mi sconfortano certe modalità di recensione che, nonostante la loro erudizione (o proprio a causa di questa), sembrano andare spettacolarmente fuori strada. Desidero concentrarmi sulla recensione uscita su Antinomie a firma di Arturo Mazzella: il recensore è un esperto del rapporto fra Shoah e immagine, tema indagato nel suo recente libro La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini. Sulla carta, pertanto, nessuno meglio di lui sembrerebbe qualificato a valutare il film di Glazer. La recensione (o forse sarebbe meglio chiamarla ‘riflessione critica’) appare serrata nell’argomentazione. Ecco come si sviluppa:

    1. Mazzella inizia rilevando il consenso generale e quasi unanime intorno al film di Glazer, tracciando paralleli con la ricezione riservata a film precedenti sullo stesso tema (La vita è bella, di Benigni, e Il pianista, di Polanski);
    2. A questo punto, però, egli introduce la critica portante, che accomunerebbe i tre film: la loro incapacità di mostrare “il groviglio di contraddizioni e conflitti che vanno al di là dell’opposizione tra vittime e carnefici, tanto ovvia da non consentire alcuna integrazione”;
    3. Questa tesi è portata avanti per tutto il resto dell’intervento. In sostanza, il film viene accusato di un impianto manicheo, basilare, ricalcato “sugli stereotipi ereditati dal passato”. A Mazzella sembra dispiacere, in particolare, l’assenza “di ipotesi esegetiche molto più ardite”;
    4. Per portare avanti la tesi di cui sopra, egli si appella a Godard, alla sua poetica del montaggio stridente fra diverse sequenze nelle Historie(s). Scrive Mazzella che “proprio una “seconda” immagine è quello che manca del tutto alla Zona d’interesse“. Questa monotona uniformità, insomma, non permetterebbe di esplorare il conflitto e la tensione di cui al punto 2.

    Spero che questo riassunto non faccia torto al lavoro di Mazzella; il lettore, ad ogni modo, potrà verificarla da sé al link sopra.

    Intuisco un problema fondamentale, direi persino epistemologico, in tutto l’intervento. Mi riferisco all’imposizione top-down, dall’alto, di assunti storiografici, ermeneutici ed estetici (il modello di Godard), che vengono disattesi o ignorati dal film, con comprensibile scontento del recensore. Il film insomma gli pare imperfetto o perfino sbagliato perché non risponde a una serie di requisiti o aspettative. Il film non viene davvero guardato, ma studiato come un saggio, e misurato su un’estetica diversa – quella di Godard – assunta dogmaticamente come golden standard. E’ questa forzatura categoriale la cecità cui faccio cenno nel titolo del mio post.

    Significativamente, Mazzella non si prende mai davvero la briga di analizzare a fondo la regia. Vi accenna, sì, come nei due passaggi qui sotto, ma sorvolandola più che addentrandovisi:

    ”nonostante la magistrale regia di Glazer, il film parte da tale opposizione [tra vittime e carnefici] per arrestarsi a essa, snodandosi lungo un asse narrativo decisamente statico, al cui interno l’antagonismo tra vittime e carnefici si esprime attraverso la modalità più elementare”

    le tracce della loro esistenza [delle vittime] sono affidate unicamente al sonoro proveniente dal fuoricampo. Una tecnica cinematografica la quale, mai come in questo caso, aderisce capillarmente a ciò che essa designa. Il fuori-campo, utilizzato da Glazer con indiscutibile maestria (come dimostra il premio Oscar per il miglior sonoro attribuito al film), coincide infatti con la scelta di escludere drasticamente dallo schermo ogni immagine che si riferisca al campo di Auschwitz, evocato solo dall’insistente ellissi ottenuta attraverso gli scorci delle mura che lo circondano e i suoni che provengono da lì.

    Nel primo passaggio riportato v’è l’assunto, tutto da dimostrare, che la complessità sia un valore in sé, e l’elementarità invece qualcosa da cui fuggire. Non è così, e per almeno tre motivi:

    • Primo, Mazzella, non avendo davvero analizzato (cioè descritto e interpretato dal punto di vista delle intenzioni del regista) la regia, cioè la lingua e quindi il modo di pensare del film, non può permettersi di tacciarlo di semplicità. Per sapere se qualcosa è semplice o complesso, bisogna analizzarne la struttura, le superfici. Mazzella questo non lo fa.
    • Secondo, vari studi empirici di ricezione – benché sulla poesia – hanno dimostrato che la complessità è un valore occidentale, e non può applicarsi globalmente a patto di voler fare del “colonialismo concettuale”. A pensarci bene, l’argomento non tiene nemmeno all’interno della nostra cultura: forse che le chiese romaniche sono peggiori di quelle barocche perché strutturalmente più semplici, più essenziali?
    • Terzo, la complessità può vestirsi di semplicità, come nel caso del modernismo pittorico che si ispirava all’apparente semplice naivismo delle culture tribali. Qui la complessità risiede non nella struttura ma nell’audacia di spezzare un paradigma consolidato – quello del Rinascimento e del suo prospettivismo umanistico.

    Il secondo passaggio sembra meno sbrigativo, e però anche qui ci si limita a elencare le tecniche senza davvero attraversarle, senza cercare di capirne la funzione. Le tecniche sono insomma rilevate in quanto forme, e perciò stesso accettate o respinte. Per esempio, come spiegherò meglio fra poco, l’importanza del sonoro nel film è capitale, assumendo proprio il polo dialettico di cui Mazzella lamenta la mancanza. Il fatto che l’ellissi sia “insistente” (a detta dello stesso Mazzella) dovrebbe far sorgere qualche dubbio circa l’entità della rimozione del punto di vista delle vittime.

    La mancata analisi della regia non è solo un problema di focus, ma un vero e proprio buco metodologico che sconfessa l’argomentazione principale. Infatti, quanto Mazzella scrive al punto 4 si rivela essere falso in maniera lampante. Glazier, è vero, non si serve del montaggio drammatico alla Godard, però ne opera uno più sottile, anzi, ne inserisce di vari e su vari livelli. Anzitutto, l’uso pervasivo dell’ellissi (per esempio, il fumo degli inceneritori che si intravede dalla casa del Comandante di Auschwitz Rudolf Höss e la sua famiglia) può essere esso stesso interpretato, dal punto di vista percettivo, come una forma di montaggio simultaneo (un collage insomma) dove elementi contrastanti non vengono relegati a scene distinte ma sono co-presenti nella stessa scena (frame). Ciò richiede una fruizione non seriale bensì parallela, sinestetica, più coinvolta e meno analitico-distaccata. L’uso dell’ellissi viene criticato perché esso andrebbe contro l’abbondanza testimoniale della Shoah:

    Se c’è una tecnica narrativa che oggi – dopo un’alluvione di testimonianze cinematografiche, letterarie e artistiche, ovviamente di qualità eterogenea – non può offrire alcuno spunto di riflessione sulla Shoah questa è l’ellissi.

    Tale affermazione dogmatica e assertiva manca totalmente il punto: l’ellissi è provocatoria e proficua esattamente perché l’evidenza testimoniale è abbondante. Tenendo presente che oggi è in corso un plausibile genocidio a Gaza, Glazer intende mostrare che ormai le immagini hanno smesso di toccarci, di scuoterci, proprio perché ne siamo travolti, sopraffatti. Siamo, per la maggior parte, insensibili al visivo.

    Inoltre, come già accennato prima, l’operazione di montaggio concettuale più decisiva in La zona d’interesse si realizza a livello del rapporto tra visivo e sonoro: il sonoro perturbante e iperrealistico del film (Mazzella ha ragione a dire che ‘aderisce capillarmente a ciò che designa’, ma sembra dirlo a mo’ di critica) è, a detta di Glazer stesso, un vero e proprio ‘film’ parallelo, di pari se non superiore dignità rispetto al film visivo. E’ nel sonoro infatti che si realizza il polo dialettico che letteralmente Mazzella non vede o non vuole vedere. Come sappiamo dal cognitivismo, anche il suono è immagine, cioè suscita imagery nello spettatore. L’alternarsi del lungo, in apparenza ‘banale’ film visivo e del breve, drammatico film sonoro è il meccanismo che crea tensione e conflitto. Sorprende che la parte sonora del film, che è da capogiro e che rappresenta davvero le vittime, nella recensione occupi sì e no mezza riga. L’incapacità o il rifiuto di dare al sonoro statuto di immagine (e quindi statuto semiotico di rappresentazione) conduce a questa conclusione:

    ”Del tutto assente, però, nel film di Glazer [la terza figura che emerge dalle due in opposizione], la cui restrizione del punto di vista a una sola prospettiva non può che restituire il luogo comune della “banalità del male”.”

    Ma non è vero che nel film c’è solo la prospettiva dei carnefici (dei tranquilli oppressori di cui scriveva Fortini in Traducendo Bretch): quella delle vittime è articolata (disarticolata) nel sonoro stridente, proprio perché le vittime non hanno il controllo dell’informazione, e sono ridotte al silenzio (non dovrebbero servire i trauma studies e i colonial studies a ricordarcelo).

    Un’ulteriore strategia dialettica messa in atto dal film, e del tutto ignorata da Mazzella, è l’irruzione di scene girate in notturna coi raggi a infrarossi, a rappresentare il bene, divenuto pericoloso e quindi da fare di nascosto: queste scene sono un contraltare all’afosa, cristallina e statica distanza con cui viene rappresentata la famiglia di Rudolf Höss. E quindi il principio di Godard – che è un principio estetico fra l’altro, non una legge inviolabile! – viene rispettato, anzi innovato, senza l’ortodossia che Mazzella avrebbe desiderato. In sostanza, il critico sembra non aver guardato l’intero film, o sembra averne rimosso aspetti decisivi, o sembra averlo guardato con occhiali del tutto inappropriati. Come dicevo prima, senza una complessiva descrizione del film, anche le conclusioni che se ne traggono sono falsate. Sembra banale doverlo ribadire, ma è così.

    Infine, nel passaggio citato più sopra, Mazzella si lamenta che il film non va oltre “il luogo comune della banalità del male”. Ma la banalità del male non è un luogo comune: è semmai una formula icastica, memetica e potentemente sintetica. Né i luoghi comuni sono innocenti: “la forza del luogo comune, dolorosa” scriveva Vittorio Sereni in una sua poesia. Ma l’arte può e anzi dovrebbe riproporre verità banali, senza per questo farsi pigra o ideologica: la sua modalità non è quella della conoscenza razionale, speculativa o pedissequamente archivistica che sia, per cui si chiederebbe a un film di dare un contributo paragonabile a quello richiesto a un trattato scientifico o filosofico; ma piuttosto risiede (o può anche risiedere) nell’apprensione sensoriale, nell’intelligenza della percezione risvegliata e perfino liberata dalle ipotesi esegetiche (rendere la pietra nuovamente ‘di pietra’, nella formulazione di Shklovsky). Per esempio, una delle cose che maggiormente mi hanno colpito del film sono i colori saturi e un po’ sfocati, afosi, che a guardarli bene mettono difficoltà nel respirare, come se fossero essi stessi fumo tossico: in una scena superlativa dove vari tipi di fiori vengono ripresi, la loro minacciosità (acuita dal sonoro) diviene evidente al punto di inchiodare lo spettatore: le corolle sono aperte come forni crematori.

    Altro aspetto dialettico: benché la maggior parte del minutaggio sia dedicata agli oppressori, il prevalente campo medio-lungo impedisce qualsiasi identificazione empatica: si è abbastanza lontani da non essere loro, ma abbastanza vicini da non essere a loro del tutto estranei. Se – come un altro recensore aveva sperato – Glazer avesse optato per primi piani, l’effetto possibile (e deleterio) sarebbe stato quello di una complicità al limite dell’ammirazione, dell’identificazione con il carnefice. E’ tale identificazione morbosa quella che che viene propinata in molti film sui serial killer, ed è manipolatoria e dunque poco etica.

    Un’ultima nota. Il sonoro, così come i minuti di buio all’inizio, così come le sequenze a raggi infrarossi, sono minoritari dal punto di vista del minutaggio, ma hanno un impatto e una significanza infinitamente maggiori. Sono la deviazione dalla norma, sono l’emersione dell’inconscio (dell’umanità repressa altrove) che erompe per poco ma in maniera abissale, indimenticabile. Consiglierei dunque a Mazzella di riguardarsi il film, sgravandosi delle convinzioni immobilizzanti che ha maturato in quanto esperto della materia.