Contro il panottico del macrotesto?

L’idea centrale, la tesi fondante, la coesione, la progettualità in un libro di poesia. Benedetti argini contro il dilettantismo, certo, indici di serietà e impegno, di direzione della propria ricerca, ibridazione con i modi continuati del romanzo e del saggio, prodotto editoriale più solido e spendibile. Ma anche, forse, garanti di una riconoscibilità troppo imprestata, delocalizzata, imposta dall’alto sulla materia (e lo sguardo) che vi si devono adeguare. E che quindi possono stornare l’attenzione di chi legge dal giusto onere di fermarsi su ogni verso, di sentirne la vibrazione se c’è. Soprattutto, di apprezzare il verso e il testo in quanto tali, per il loro peso specifico, senza per forza assoggettarli al macrotesto, senza farne vassalli, microcosmi di un macrocosmo. Al di là e direi molto prima della tenuta, del progetto, dell’ambizione, c’è il singolo verso come gesto istintivo irriducibile, come miracoloso individuo del momento che il poeta farebbe bene a non ingabbiare o reprimere nel suo disegno complessivo, nel suo panottico.

A soffrire di questa impostazione, cioè dell’intenzionalità dimostrativa o monolitica (alla peggio brandita come marchio di fabbrica tematico o formale), non è tanto la spontaneità (che è un mito), ma piuttosto l’individualità del testo singolo, che come una persona dovrebbe (potrebbe) essere un organismo irripetibile, dato da risultanti accidentali, non ripercorribili. Rispetto al libro di poesia, la raccolta (io direi l’aggregato però) consapevole rinuncia al controllo demiurgico, lascia che i vari attori (le poesie) si contaminino secondo rispondenze più umorali che seriali, perché in fin dei conti una certa imprevedibilità rapsodica (quando non sfocia nel disimpegno ad armonizzare in qualche modo i testi, è chiaro) registra meglio una certa disposizione d’apertura, di riconoscimento di un saggio limite sulla nostra ansia di controllo. Il macrotesto troppo strutturato assomiglia all’alienazione: alla censura delle proprie spinte non allineate da un lato, e a una patente o cartellino sociale da esibire dall’altro. Riflessioni che mi vengono non solo pensando ad alcuni libri e prove recenti, ma anche a un illuminante commento critico che lessi molti anni fa e che, in sostanza, legava la minor riconoscibilità (la maggior variabilità) del modus di William Carlos Williams rispetto a quello di Wallace Stevens (autore che pure amo) proprio all’abbracciare, da parte del primo, una logica di minore antagonismo, di distensione, di disponibilità a essere plasmati dall’esperienza prima ancora che a plasmarla.

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