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  • 31# Sulla serialità in poesia (2): ansia epistemica o rituale terapeutico?

    Avendo tentato, qui, una definizione e una preliminare tipologia di serialità, vorrei ora pormi il seguente quesito: quali sono le possibili motivazioni che conducono alcuni autori verso versioni forti di serialità (tipo 3 nell’articolo precedente), e quali i rischi o limiti connessi?

    Anzitutto, mi pare che la serialità sia consustanziale a un’ansia epistemica che mira a catalogare, e idealmente esaurire, una circoscritta regione cognitiva ed emotiva (della vita, dell’esperienza, della storia…) osservandola per minimi slittamenti e quindi con attitudine analitica. Da qui deriva il bisogno strutturale di una cartografia esplicita – le invarianti del tema e della forma, delle ricorrenze insomma – che metta in luce le differenze fra testo e testo o fra sfaccettature dello stesso tema, isolandole come in laboratorio.

    Questo obiettivo è molto più facilmente intuibile nelle arti figurative, plastiche e installative le quali, a differenza della lingua – medium anzitutto temporale – sospendono il tempo: vengono in mente le ninfee instancabilmente dipinte da Monet, dove l’invariante tematica si accompagna alle varianti della luce, del tempo atmosferico, dell’angolazione; o le nature morte artigianali o industriali di Giorgio Morandi, dove il focus ossessivo e prolungato su pochi oggetti e poche forme permette un’esplorazione certosina della loro disposizione spaziale e dei conseguenti rapporti che intercorrono fra loro; per stare nel contemporaneo, penso anche a un’installazione di Paulina Pukytė dal titolo Muilas (sapone), vista a Vilnius di recente, dove decine di saponette raccolte da altrettante città sono esposte su una parete, ciascuna nella sua bustina accompagnata da un’etichetta con l’indirizzo preciso del rinvenimento:

    Dettaglio di Muilas, installazione di Paulina Pukytė. Foto di Davide Castiglione.

    L’attitudine è comparativa ed etnografica; l’effetto è simile a quello sortito da collezioni di specimen fossili o geologici in un museo di scienze naturali. Quest’opera, per inciso, mi ha colpito perché mostra la divaricazione fra un concetto pur semplice e umile come quello di saponetta, e l’infinita varietà materiale a questo sotteso, campionato con esemplari di forme e colori diversi, con gradi diversi di consunzione, recanti anche le tracce indessicali di chi le ha usate nel tempo. Esemplari tutti accostabili per funzione e definizione, dunque, eppure fra loro irriducibili per aspetto e storia.

    Delimitare e classificare l’esistente è dunque un rimedio all’ansia e alla perdita di controllo. Non stupisce che Mark Roget, il Linneo della lingua, l’inventore vittoriano del tesauro generale, raggruppasse parole in insiemi, sottoinsiemi e sotto-sottoinsiemi anche come terapia personale, argine alla propria vita travagliata e puntellata di lutti. Forse da piccolo obbedivo a uno stesso desiderio d’ordine e controllo quando collezionavo i cucchiaini delle gelaterie o disegnavo città dall’alto senza tralasciare finestre e dettagli architettonici. Non posso escludere che, avendo io sfogato questa ansia conoscitiva cartesiana negli studi accademici, abbia potuto permettermi una scrittura in versi più umorale ed episodica.

    Il metodo scientifico obbedisce a un principio simile a quello della serialità: gli esperimenti si sviluppano a partire dai precedenti, aggiustando di volta in volta singoli elementi (cambiando l’ipotesi, un aspetto del modello, una sample population, una variabile ecc.) in base alla domanda o alla limitazione scaturita dall’esperimento precedente. Letti in serie, questi esperimenti assumono caratteri di consequenzialità, di controllo compulsivo-ossessivo e perfino d’ineluttabilità logica. Non proprio di determinismo – altrimenti si saprebbe tutto a priori – ma lo spazio per la libertà e l’improvvisazione, per il libero arbitrio, risultano comunque assai ridotti per il fruitore, proprio perché un gran numero d’invarianti è stato deciso e svelato a priori, proposto pagina dopo pagina, per un senso crescente di saturazione.

    La serialità, anche in poesia, è una forma di fedeltà e disciplina che, nel migliore dei casi, limita i capricci e gli automatismi compositivi inconsciamente ereditati da chi scrive: come una nuova metrica o ritmo (l’intuizione è di Gerardo Iandoli), induce a sfumare la propria autorialità entro griglie e forme predeterminate, e sul piano psicologico e morale implica una “sospensione dell’idea di possesso”, come ha scritto Simone Migliazza in un commento in risposta al mio post. Nel peggiore dei casi, può sfociare in coazione a ripetere, in un tentativo di distrarre chi legge dalla poca incisività della pagina singola – la pagina singola, ma direi più ancora il singolo verso, essendo lo spazio agonistico sul quale si esercita la memoria a breve termine, la working memory. Un possibile parallelo con il gioco del calcio è quello fra il guizzo del fantasista che spariglia le carte (il testo o pezzo singolo, il gesto gratuito, la sorpresa del cigno nero) e lo schema collaudato, magari più efficace ma tedioso nella sua ripetitività e meccanicità.

    È anche vero che questa implacabilità può essere sfumata e perfino mutata di segno nell’idea del rituale come funzione strutturante. Attitudine quindi antimoderna, se Todorov nella Scoperta dell’America insiste sul carattere moderno dell’improvvisazione contingente (quella dei conquistadores, mossi da interessi pragmatici e strategici) in contrapposizione a quella ciclica e magica degli indigeni convertiti, sottomessi, sterminati. Da questo punto di vista, la ricorrenza intrinseca alla serialità sarebbe più un ritorno del rito, della sua funzione di legamento (un’ipotesi etimologica è che religione valga come legare insieme, unire) che un’arresa iconica alla riproducibilità e alla serialità già intrinseca nell’esistente, nel paesaggio tanto naturale quanto antropizzato (per cui rimando a questo bell’articolo di Simone Migliazza).

    Bisognerebbe dunque chiedersi se la serialità, come simulacro di controllo e anche come rituale sostitutivo, assolva a un bisogno sociale avvertito più forte nelle società occidentali che hanno perduto il sacro e sono caratterizzate da un relativismo che non è autentico pluralismo ma moltiplicazione delle ontologie: del resto viviamo in piena epoca postmoderna se lo stesso evento non solo ha interpretazioni opposte, ma se queste interpretazioni creano due eventi inconciliabili a partire da una stessa datità materiale: valgano le coppie “rivoluzione vs colpo di stato” e “resistenza vs terrorismo” a esemplificare la questione. La coerenza interna come contrappeso al caos esterno, il macrotesto come fortino contro la precarietà?

    Lascio che la domanda rimanga tale. Va poi da sé che queste considerazioni generali e alquanto astratte andrebbero verificate sulle opere singole, cosa che intendo fare in futuro. Per esempio, in uno dei commenti al mio post originario, Antonio Francesco Perozzi mi ha messo in guardia dal pensare alla serialità unicamente in termini di controllo, evidenziandone invece il carattere di “sfida verso un modo della lingua e dell’esperienza”, a produrre “qualcosa che, paradossalmente, appare inquietante”, e altresì insistendo – qui sono molto d’accordo – sull’inceppamento che la serialità infligge alla dimensione progressiva e temporale (teologica, perfino?), che Antonio riconduce all’etica cristiana. Analogamente, Andrea Inglese ha eccepito – a ragione – sulla mia enfasi della serialità come fenomeno deduttivo e ordinante, giacché, scrive Inglese, “la serie è spesso un programma di avvicinamenti all’oggetto o all’argomento investito poeticamente, ma questo è esattamente il contrario della deduzione”: ha ragione, e credo che questo mio nuovo articolo abbia inquadrato più precisamente la questione. La serialità porta non a deduzione (non a determinismo) ma una sorta di scoperta controllata, cumulativa, analitica, ma difficilmente euristica o fulminea, intuitiva ed entusiasta, come si dà invece nel singolo “pezzo forte” esportabile.

    In conclusione, quello che so e sento è che, almeno in me, non sparirà facilmente la nostalgia per, e la tensione verso, un tipo di poesia esportabile, citabile, che possa verticalmente distaccarsi dall’atmosfera orizzontale della serialità, e rispondere piuttosto a una pulsione erotica, d’incontro improvviso e destabilizzante nel suo qui e ora.

  • 27# Crisi della (mia) critica: riflessioni e una tipologia

    Negli ultimi mesi, ma in realtà anni, ho scritto davvero poca critica di poesia – gli anni d’oro per produttività, se non m’inganno, furono il 2011, 2013 e 2019, oltre a un lavoro di sistemazione iniziale nel 2017: la critica si concentra forse nei numeri dispari, puntuti?

    I motivi di questa mia latitanza sono molti e in buona parte banali: impegni accademici (e gestionali) aumentati, carichi didattici, il sopraggiungere di altre priorità (convivenza, matrimonio), gestione del tempo migliorabile, ispirazione per la scrittura poetica in proprio (due libri ancora inediti!), spostamento (esaurimento?) delle energie mentali verso le grandi tragedie geopolitiche, che mi hanno incupito ma anche trasformato profondamente. Accanto a tutto questo, però, insiste anche una sfiducia più circoscritta nell’attività critica in sé e per sé.

    Scrivevo su Facebook qualche mese fa: “chissà se troverò (se troveremo) il “coraggio” (oltre che il tempo, le energie e la motivazione) di fare critica veramente militante di poesia, accettando di criticare pubblicamente e anche aspramente i libri in voga come quelli sconosciuti, e compresi quelli di amici e contatti, accettando la possibilità di essere isolati o non invitati a festival o declinati – non grammaticalmente – ai vari concorsi; e farlo prendendo tutto ciò che ne viene con l’olimpica, impassibile serenità di chi sa di essere nel giusto (nell’intenzione e nella spinta, se non nelle valutazioni) nel proprio piccolo ruolo di testimone, di ponte e di filtro culturale del suo tempo. Perché se manca questo coraggio, allora diventa ipocrita criticare il tribalismo e l’omertà in seno ad altri gruppi, di qualsiasi altro gruppo, meglio se lontano e comodamente estraneo”.

    Ad allontanarmi dalla critica, mi rendo conto, sono state anche la mia stessa assenza di coraggio, le mie mezze misure, la mia rinuncia ad anteporre la vocazione integralmente critica, cocciutamente militante, alla preservazione di una cordialità di facciata dei rapporti, specie quelli occasionali (le eccezioni esistono, e restano infatti eccezioni). Come se criticare aspramente, polemizzare, dovesse portare a chissà quali fratture e conseguenze. Dico questo malgrado io venga ritenuto polemico e al tempo stesso affidabile. E pensare che mi sono spesso trattenuto! A dire il vero negli anni 2018-2019 tenevo una rubrica, ‘Botta&risposta’ sulla Balena Bianca, dove potevo essere critico, e lo ero spesso, ma il tutto era smorzato dalla possibilità di replica del formato-dialogo, e se si vuole dalla stessa cornice del titolo, che predisponeva a una certa attitudine di sfida, a cui quindi si arrivava già “vaccinati”. E ciononostante, erano talvolta veementi e piccate, e quasi sempre sulla difensiva, le risposte degli autori recensiti.

    Anche la scheda personale critica, ma non fatta poi circolare al di là dell’autore che l’abbia richiesta in privato, era in fondo un modo codardo di venire meno al proprio compito: se un libro è un libro, cioè se è pubblicato e dunque pubblico, pubblica deve anche essere la sua critica. In sostanza, non mi sentivo all’altezza del mio piglio, della mia vocazione, poiché in fondo sono sempre stato restio agli attriti interpersonali. People pleaser, diremmo in inglese. Ma quanto ancora potevo conciliare nello stesso corpo un pungiglione critico sempre all’erta con una soffice, appianante trapunta impersonale? Creare la pagina Critica su questo sito, e dettare (anche a me stesso) le mie condizioni è stato un primo modo per tentare di uscire da questa impasse.

    In realtà, la crisi è ancora più profonda, epistemologica prima ancora che etica. Ha in sostanza a che fare con un quesito che mi pose (o su cui capitò di confrontarsi con) Lorenzo Carlucci, a Roma, un anno e mezzo fa. Siamo sicuri che abbia senso valutare un’opera in base ai propri parametri estetici e non iuxta propria principia? è chiaro che se io valuto un’opera partendo dai miei presupposti estetici, nei quali sono profondamente implicato e anzi militante in quanto autore di versi in proprio, si salverà ben poco – si salveranno solo affini e sodali. Chi mi sento, un novello Croce al contrario, tanto sospettoso verso la poesia “pura” tanto quanto quella “concettuale”, saggistica o materialistica?

    La soluzione, probabilmente, risiede nel ricostruire l’intenzione dell’opera a partire dalle sue strutture e scelte retorico-stilistiche, e valutarne la riuscita entro quelle intenzioni. E, al limite, criticare l’intenzione stessa, cioè la poetica e l’operazione anziché la riuscita. Sto cercando di imparare a farlo. Al tempo stesso, anche per rimuovere la critica da un Moloch interamente valutativo, cioè per rimuoverla dall’imperio del solo giudizio, credo sia bene individuare ed esporre alcune funzioni-base, e capire dove stanno rispetto a queste la propria vocazione e la propria capacità di incidere. Propongo questa lista iniziale:

    1. CRITICO COME PONTE: il critico compie un servizio, riassumendo e contestualizzando l’opera per i lettori, anche quelli non specialisti. Non importa se in poesia non esistono lettori non specialisti: il registro che sa traghettare (divulgare) dall’opera alla società, sia mediante certe scelte discorsive che tematiche, potrebbe alla lunga ‘costruire’ e dunque avvicinare un nuovo lettore di poesia. Le note di Matteo Fantuzzi ed Erardo Gliandoli su UniversoPoesia – Strisciarossa, o quelle di Michele Ortore su Treccani per la rubrica Poesia con vista appartengono a questa schiera (collabora alla rubrica anche Dimitri Milleri, ma i suoi contributi mi sembrano avere un taglio un po’ diverso, forse più portato all’interrogazione etica delle scritture – mi sembrano cioè letture più intime, meno mediate, ma potrei sbagliarmi) .

    2. CRITICO COME TESTIMONE: il critico, nel senso più nobile del termine, testimonia alcuni percorsi autoriali. Li segue nel tempo, dà loro voce, come un attivista fa per le vittime, proprio perché crede in quel percorso, cioè crede che quel percorso mostri una via proficua non solo per la scrittura ma magari anche per come quell’opera invita il lettore a stare al mondo. Qui non è fondamentale in quanti leggeranno o no quella critica. L’importante è che esista, che qualcuno abbia visto il valore e speso parte del suo tempo a difenderlo e promuoverlo. Una questione di “giustizia interna” al critico, da un certo punto di vista. Mi accorgo ora di essere stato critico come testimone di alcune voci che ho seguito nel tempo o sulle quali mi sono speso maggiormente.

    3. CRITICO COME FILTRO: mi piace pensare alla critica anche come a un sistema di depurazione. Certo, ogni anno escono centinaia, anzi migliaia di titoli. Impossibile leggerli tutti, e pure impossibile leggerne una parte cospicua. Però, nei tempi lunghi, si fa comunque un lavoro di filtro, dove su centinaia di libri e su migliaia o decine di migliaia di poesie lette, nella memoria e nell’entusiasmo ne resteranno poche decine, e su quelle occorre puntare. Quindi il critico non è esattamente un intero sistema di depurazione, ma è un apparecchio di depurazione posto in una certa ansa di un fiume. Ha vagliato l’1% dell’esistente, e vi dà lo 0,01% che vorrebbe si salvi.

    4. CRITICO COME MEDIUM, CORPO RISONANTE: esiste un beneficio privato a fare critica, anche a prescindere dal fatto che qualcuno la legga o no: confrontarsi con varie alterità, vedere che strumento il proprio corpo è rispetto a un tipo di testo-esecutore. La metafora del ‘è nelle mie corde’ va presa letteralmente, e così per esempio fa Peter Stockwell, uno dei fondatori della poetica cognitiva, quando sviluppa il concetto di resonance(risonanza). Quindi fare critica, articolare un discorso, è un modo per capire sé, capire come (non) si risuona. Se si è un medium convincente, chi legge darà la colpa della mancata risonanza non al medium ma al testo-esecutore.

    5. CRITICO COME SCIENZIATO/SPECIALISTA: e poi c’è semplicemente il gusto della descrizione tecnica, dell’accumulo di dati e di convergenze che articoleranno la propria gran teoria stilistico-estetica. Quindi anche esercitarsi sui contemporanei che “non si sentono” a pelle è un modo per alimentare sforzi teorici di più lunga gittata, che nel mio caso alimentano poi articoli e monografie accademiche.

    Per quanto incompleta e abbozzata possa essere questa tipologia, potrà forse aiutarmi nell’esercizio critico, fornendomi delle coordinate e chiarendomi il tipo di servizio che svolgo (per me stesso, per l’autore, per i lettori) di volta in volta. Dopotutto, le personalità ansiose come la mia richiedono di grandi sistemi, di ascisse e coordinate, di classificazioni: Mark Roget – il geniale inventore vittoriano dei tesauri generali dove si compendia tutto il sistema concettuale di un’intera lingua – docet.