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  • 19# Mutevolezza, dramma e tensione relazionale: riflessioni sulla poesia

    [Circa un anno e mezzo fa, su La poesia e lo spirito sono apparse alcune mie riflessioni sulla poesia, come parte della rubrica La parola ai poeti. Così l’ha descritta il suo promotore Fabrizio Centofanti, che ringrazio per l’invito: “ogni autore può condividere la sua visione della poesia, l’esperienza di scrittura, le vicende umane legate all’ambiente e via dicendo. È un’occasione per conoscere e riconoscere, la sfida di condensare in un nucleo incandescente la propria idea e il proprio vissuto di poeti”. Le puntate precedenti e successive sono leggibili qui. Buona lettura]

    Negli anni mi sarò imbattuto in centinaia di definizioni o similari tentativi di accostare la poesia: in saggi, post, nelle stesse poesie a tema metaletterario. Robert Frost ha paragonato lo scrivere in versi liberi al giocare a tennis senza rete; per William Carlos Williams la poesia è una macchina di parole; Paul Valery, ci informa Valerio Magrelli in un’intervista, la associa addirittura alle feci[i]. E via dicendo. Mi fa sorridere ma non mi sorprende che sia così: di solito le definizioni tanto più proliferano – facendosi spesso metaforiche, idiosincratiche, diventando anzi un sottogenere letterario a sé stante – quanto più il fenomeno in questione appare sfuggente, eppure al tempo stesso centrale alla vita o alla vanità di chi tenta di circoscriverlo. Verrebbe da pensare alla sensazionale foto del buco nero Sagittarius A*, che non è in realtà una foto scattata direttamente ma una ricostruzione a posteriori ottenuta combinando i dati di otto telescopi sparsi nel mondo. Ma si tratterebbe di un’analogia fuorviante, perché a differenza di quelli veri, i nostri telescopi (poeti, saggisti, opinionisti, semplici lettori) non comunicano fra loro in maniera coordinata, e insomma non sembra possibile incrociare in un’immagine organica le migliaia di definizioni o suggestioni esistenti. Sarebbe inoltre un giochino retorico stucchevolmente postmoderno dire che la poesia è tutto quanto resta al margine di questa rete di definizioni o pseudo-tali.

    Parte di questa difficoltà fondativa ha carattere storico: come ricorda Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna (2005), la poesia nella modernità è passata dal designare un sistema di generi letterari a un’espressione esistenziale soggettiva che si presenta come atemporale e assoluta. Mazzoni fa partire questa modernità nel 1819, data di composizione dell’Infinito leopardiano. Da lì in poi, le poetiche del romanticismo, del simbolismo, del modernismo, fino agli espressivismi più recenti, rivendicano un’irriducibile soggettività, trovandosi attraversate da una scissione fra poesia e pubblico che Stéphane Mallarmé – secondo George Steiner, nel saggio On Difficulty – portò a compimento programmatico nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi una definizione che è sembrata calzante ha i caratteri paradossali di una non-definizione: «per bizzarro che possa sembrare, una buona definizione approssimativa della poesia contemporanea potrebbe essere la seguente: quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è stato)»[ii]. Ma se non è esclusiva, una definizione abdica alla sua funzione, e quindi alla sua stessa ragion d’essere. E qualcuno obietterebbe comunque che la poesia non è nemmeno un genere letterario. Come fare, allora?

    Per fortuna (mia), qui non mi viene richiesto un saggio, ma una declinazione parziale e soggettiva della poesia, basata sulla mia esperienza, liberandomi così dall’ansia di dover fornire un quadro condivisibile oltre me stesso. Posso pertanto reimpostare i termini della questione chiedendomi non cosa sia la poesia ma cosa faccia agli altri, e a me stesso in primis quale luogo unico e insostituibile della mia introspezione: spostandomi cioè dal piano essenzialista od ontologico, infinitamente problematico, a quello pragmatico e fenomenologico, più gestibile e spesso più onesto. Il passo ulteriore è quello di sostituire a «poesia» (concetto astratto, reso in inglese da poetry), l’insieme delle «poesie» (poems) che contano o hanno contato per me, incluse quelle che ho scritto: qui seguo la scia illuminista di un Giovanni Raboni, che significativamente intitolò una sua raccolta di recensioni e interventi La poesia che si fa. D’altronde, come è risaputo, il fare è già nell’etimo della poesia (poiein), e quindi per una volta fidarsi dell’etimologia e andare verso le origini – demiurgiche, artigianali? – del termine non sembra un vezzo da eruditi ma una mossa di buonsenso, di allineamento con l’esperienza vissuta.

    Siccome ho già scritto altrove[iii] delle origini della mia scrittura, dei suoi moventi psicologici e – se non suonasse pretenzioso – direi esistenziali, qui mi sembra più opportuno riflettere sui miei orientamenti estetici – che sono sempre al tempo stesso etici, rimandando a una maniera di abitare l’esistente. Io mi trovo a casa in quelle poesie che fanno intuire in filigrana la totalità intellettuale e sensuale di chi le ha scritte, e che cioè rimandano a una sensibilità tridimensionale e sfaccettata, ma al tempo stesso riconoscibile nella sua costanza e fedeltà; in poesie che invitano alla rilettura, e che sono cioè l’opposto delle confezioni semiotiche usa-e-getta, degli assemblaggi a freddo tanto di stampo (pseudo)lirico quanto (pseudo)sperimentale che proliferano oggi, dove sembra che chi scrive sia indifferente a ciò che ha scritto, e viceversa (parlo dell’io autoriale profondo, non di quello social). Prodotti insomma mai toccati dalla fede, dall’investimento e dalla ferita; e spesso estranei anche all’intelligenza compositiva, che non è semplice familiarità con le tecniche di scrittura, ma capacità e disciplina di trovare la forma al sentire e, lavorandola, acuire il sentire stesso. Questa totalità densa ma ospitale è in molti grandi poeti, è per esempio in Wallace Stevens, Marianne Moore, W. H. Auden, Philip Larkin, Seamus Heaney, Czeslaw Milosz, Eugenio Montale, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Franco Fortini, fino a Cristina Annino. La si percepisce nettamente anche in poeti-cantautori come Leonard Cohen e Fabrizio De André.

    In Notes Towards a Supreme Fiction, Wallace Stevens auspicava una poesia astratta (It must be abstract), mutevole (It must change) e in grado di dare piacere (It must give pleasure). Sono certamente d’accordo sugli ultimi due requisiti, mentre il primo potrebbe prestarsi a qualche equivoco: l’astrazione oggi fa pensare a qualcosa di alienato e non incarnato, di stilizzato perfino, mentre in Stevens l’invito, se lo comprendo bene, è verso un ordine superiore che tuttavia comprende ed esalta, anziché fustigarlo, il mondo sensibile. È però il secondo requisito, la mutevolezza, quello sul quale vorrei dire qualcosa in più, perché mi sembra il più ignorato e il più urgente. Oggi abbondano testi pseudopoetici che non cambiano (e non cambiano chi legge) dall’inizio alla fine: sono omogenei, dannati da subito, quasi che il codice genetico del primo verso avesse deciso come saranno tutti i versi seguenti. Non permettono di fare alcuna esperienza, visto che l’esperienza richiede una qualche forma di discontinuità che possa scolpirsi nei sensi e nella memoria. La brevità della maggior parte delle poesie è un’insidiosa alleata in questo stato di cose, perché è sulla lunga distanza che diventa necessaria, perfino inevitabile, l’articolazione di un pensiero e di una visione, dove quindi anche il detour, lo scarto, l’imprevisto, la sfumatura, acquistano peso. A proposito di sfumatura. Molta poesia oggi lascia poco o niente dopo la lettura perché in qualche modo replica in chiave estetica le polarizzazioni ideologiche (quasi sempre caricaturali e disinformate, fra l’altro) che caratterizzano il discorso comune, e che sono esplose con i social e soprattutto dopo la pandemia. Apprezzare le sfumature non è perdersi in cavillosità teoriche, ma avere allenato i sensi verso la molteplicità, e saper convivere con le ambiguità –altrui e proprie. C’è una frase bellissima di Jacques Sindral citata in Principles of Literary Theory, del grande critico I. A. Richards, che dice così: «si passa più facilmente da un estremo all’altro che da una sfumatura all’altra». Ecco, se c’è una frase che riassume lo sconfortante stato di cose presenti, è questa.

    Scendendo a un livello più concreto di mutevolezza, mi attirano – e tendo a scrivere – le poesie che, come dei microdrammi, mettono in scena tensioni relazionali di vario tipo. A livello linguistico, è l’assetto pronominale a sostenere un progetto del genere. Molte poesie oggi hanno i verbi noiosamente tutti alla prima persona, e il tu al massimo è evocato come innocuo fantasma-destinatario, nella più esausta tradizione lirica. Sembra che manchino la flessibilità e la freschezza per slittare da un pronome all’altro, in ciò facendo un torto alla realtà della vita, che è relazionale e non monologico-intransitiva. Mi limito a un paio di esempi: Sereni, all’inizio della Pietà ingiusta, negli Strumenti umani, scrive «mi prendono da parte, mi catechizzano». In poche parole abbiamo un assetto dove l’io è assediato da un ‘essi’ non identificato. Gli altri ci sono sin da subito, e se l’io ha una qualche identità, essa è inscindibile dall’azione altrui, essendone anzi il paziente semantico. Analogamente, in Smentire il bianco (Arcipelago Itaca 2023), notevole libro d’esordio di Silvia Patrizio, leggiamo in una poesia dedicata a Maria Maddalena i seguenti versi: «se la sua vita è tutto e la tua / un accanto». Qui abbiamo una triangolazione deittica: l’io lirico si rivolge a un tu specifico, quello di Maria Maddalena (un tu interpretabile anche come auto-riferito), ma nello stesso verso si allude a Gesù di Nazareth, la terza persona dietro quel «sua». Le due figure sono prossime, ma il contrasto valoriale fra le loro vite, lessicalizzato rispettivamente in pronome indefinito e avverbio di luogo sostantivato («tutto» vs. «un accanto») sembra scavare uno iato incolmabile e, appunto, drammatico.

    Ecco, le poesie sono vive quando rivelano delle tensioni, e il mezzo per animarle è il dramma. Il bisogno di dramma è in ultima analisi un bisogno di vigilanza, di sorveglianza, una resistenza al livellamento portato dalla saturazione di stimoli effimeri a cui siamo sottoposti e a cui ci sottoponiamo ogni giorno. Le tensioni, o crisi vere e proprie, consentono di approfondire il Sé, poiché questi si conosce solo nel prisma che sono gli altri, per riprendere il titolo di un libro di Paul RicoeurSé come un altro. Per inciso, ragionare in termini di Sé, indebolirebbe le sempiterne polemiche contro l’Io o l’Ego; polemiche che sembrano fare leva su un argomento fantoccio che stravolge un fenomeno fino a renderlo irriconoscibile, semplificandolo per poterlo poi meglio attaccare. E semplificare vuol dire, per l’appunto, omettere le sfumature. L’Io non è per forza e soltanto una narcisistica soggettività borghese, ma può essere uno spazio attraversato da un sé relazionale, e quindi un microcosmo del mondo, un’argilla di tutti gli incontri e gli scontri di cui è stato testimone e complice.

    Concludo mettendo alla prova queste riflessioni con una poesia inedita, parte di un progetto che intende rivisitare criticamente la mia infanzia e adolescenza nell’alessandrino, nonché il contesto storico-sociale in cui questa si inserisce. Lascio a chi legge giudicarne non solo l’eventuale riuscita, ma l’aderenza rispetto a quanto ho espresso fin qui.

    La minaccia

    Sul campo da tennis, distesa, la replica di King Kong
    non finiva più. Mi stringevo a mio padre, e alla ringhiera:
    quel pugno umiliò elicotteri, li dissolse nel lungo pelo.
    E se ora, da fermo che era, si gonfia a lenzuolo il torace?

    Certi scenari eccitavano. Però, a una certa, si è scarichi.
    Caffè in tazze di plastica con bordo doppio, quindi.
    «Pare una cazzatina questo bordino, e invece…
    chi l’ha inventato, avrà fatto i miliardi».

    Non sapevo se essere d’accordo con mio padre;
    se eravamo una specie esaltata dalla grana
    e dall’ingegno, o dalla furia per conto terzi.
    Il candore intorno indorava ogni cosa,

    non faceva eccezione l’odore di sopruso
    pesante sul pianeta, le bisce sotto le piante
    dei piedi essiccate. Il verbo sciogliersi suggeriva
    al più amore casto, scarpe coi lacci, cono gelato.

    Vilnius, 11-12/09/23

    [i] Valerio Magrelli, La poesia è un’Urgenza. Intervista di Grazia Calanna. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/valerio-magrelli-la-poesia-e-unurgenza/

    [ii] Tommaso Di Dio, Poesie dell’Italia contemporanea (1971-2021), Milano, Il Saggiatore, p. 9.

    [iii] Davide Castiglione, Dall’inizio. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/dallinizio-davide-castiglione/

  • 8# Contro il panottico del macrotesto?

    L’idea centrale, la tesi fondante, la coesione, la progettualità in un libro di poesia. Benedetti argini contro il dilettantismo, certo, indici di serietà e impegno, di direzione della propria ricerca, ibridazione con i modi continuati del romanzo e del saggio, prodotto editoriale più solido e spendibile. Ma anche, forse, garanti di una riconoscibilità troppo imprestata, delocalizzata, imposta dall’alto sulla materia (e lo sguardo) che vi si devono adeguare. E che quindi possono stornare l’attenzione di chi legge dal giusto onere di fermarsi su ogni verso, di sentirne la vibrazione, sempre che ci sia. Soprattutto, di apprezzare il verso e il testo in quanto tali, per il loro peso specifico, senza per forza assoggettarli al macrotesto, senza farne vassalli di un macrocosmo. Al di là e direi molto prima della tenuta, del progetto, dell’ambizione, c’è il singolo verso come gesto istintivo irriducibile, miracoloso individuo del momento che il poeta farebbe bene a non ingabbiare o reprimere nel suo disegno complessivo, nel suo panottico.

    A soffrire di questa impostazione, cioè dell’intenzionalità dimostrativa o monolitica (alla peggio brandita come marchio di fabbrica tematico o formale), non è tanto la spontaneità (che è un mito), ma piuttosto l’individualità del testo singolo, che come una persona dovrebbe (potrebbe) essere un organismo irripetibile, dato da risultanti accidentali, non ripercorribili. Rispetto al libro di poesia, la raccolta (io direi l’aggregato) consapevole rinuncia al controllo demiurgico, lascia che i vari attori – le poesie – si contaminino secondo rispondenze più umorali che seriali, perché in fin dei conti una certa imprevedibilità rapsodica registra meglio una certa disposizione d’apertura, di riconoscimento di un saggio limite sulla nostra ansia di controllo.

    Il macrotesto troppo strutturato assomiglia all’alienazione: alla censura delle proprie stesse spinte non allineate da un lato, e a una patente o cartellino sociale da esibire dall’altro. Riflessioni che mi vengono non solo pensando a libri e prove recenti, ma anche a un illuminante commento critico che lessi molti anni fa e che, in sostanza, legava la minor riconoscibilità (la maggior variabilità) del modus di William Carlos Williams rispetto a quello di Wallace Stevens (autore che pure amo) proprio all’abbracciare, da parte del primo, una logica di minore antagonismo, di distensione, di disponibilità a essere plasmati dall’esperienza prima ancora che a plasmarla.

  • 2# Aggettivazione e lingua letteraria

    [Questo post, apparso inizialmente su Facebook, è stato ripreso e citato da Gilda Policastro, che ringrazio di cuore, nella rubrica La bottega di poesia de La Repubblica]

    L’aggettivazione in poesia oggi tende a essere sconsigliata, probabilmente perché pesa ancora la dottrina modernista (poundiana) che punta alla cosa in quanto tale, e quindi privilegia la minore mediazione del sostantivo per uno stile più definito e asciutto. Gli aggettivi, con il loro statuto relazionale (subordinato ai sostantivi) sembrano annebbiare con un di più di soggettività proprio questa linea tutto sommato retta fra nominazione e cosa. L’aggettivazione viene spesso usata sconsideratamente proprio dai poeti in erba, che vogliono impressionare calcando troppo la mano, sfociando in ridicoli sovrattoni. Comprensibile dunque che la via più facile sia quella di una controriforma, con l’esaltazione del sostantivo.

    Questa argomentazione pseudo-filosofica è tuttavia falsata da una comprensione grossolana della grammatica. Le classi grammaticali sono infatti contenitori troppo generici, e servono diramazioni ulteriori per capirci nei fatti di stile. La prima è fra aggettivi qualificativi di ‘descrizione’ (per es. ‘cupo’) e aggettivi qualificativi di ‘relazione’ (per es. ‘socialista’ o ‘circondariale’; più chiara la terminologia inglese: ‘descriptive’ vs ‘classifying’). Gli aggettivi di relazione saranno percepiti come meno soggettivi rispetto a quelli descrittivi (senza contare i valutativi, es. ‘rosso’ vs. ‘bello’). Ma anche all’interno degli aggettivi descrittivi, c’è differenza fra quelli modificabili (gradable) e non (o meno): tra cupo–>cupissimo e chino–> chinissimo (?). Solo quelli della prima categoria aggiungeranno soggettività, mentre quelli della seconda saranno più essenziali, più indispensabili alla specificazione del sostantivo. Senza poi contare, sul piano sintattico, la differenza fra funzione attributiva (‘cupa stanza’) e predicativa (la stanza è cupa), e fra anteposizione (‘la cupa stanza’) e posposizione (‘la stanza cupa’). E sul piano semantico, la distanza o meno fra proprietà implicite nel sostantivo e proprietà esplicitate dall’aggettivo (per es. ‘aria fresca’ vs. ‘aria sbranata’, Rebora).

    La foga contro l’aggettivazione è un errore sineddochico, fa coincidere la parte per il tutto, e cioè l’anteposizione dell’aggettivo qualificativo+descrittivo+modificabile+arbitrario/scontato (per collocazione) al sostantivo, per l’uso dell’aggettivo tout court. Voglio dire, insomma, che l’aggettivazione è vitale alla poesia – non solo perché gli aggettivi sono relazionali, ma perché nell’esserlo vanno più vicini ai qualia, alla fenomenologia (contro o in alternativa al materialismo del sostantivo). Se bene utilizzato, l’aggettivo è una stilettata dello sguardo e dell’introspezione. Sono le categorie grammaticali grezze che pongono stupidi veti alla pratica poetica. Questo non vuol dire fare a meno delle categorizzazioni, ma anzi: aumentarne il numero. Perché se Mario Luzi antepone ‘alta’ e ‘cupa’ a ‘fiamma’, trattiene l’eloquenza (anteposizione) ma usa due aggettivi descrittivi ‘nel giusto mezzo’ fra arbitrio e scontatezza: comportano un accrescimento dell’esperienza della fiamma, ma proprio perché evitano tautologia (‘calda fiamma’), il facile ossimoro (‘fredda fiamma’), come l’arbitrio originaloide (‘robotica fiamma’). A proposito, l’arbitrio originaloide è uno dei più sicuri segni di insicurezza nella composizione.

    Al tempo stesso, non ho nessun pregiudizio contro l’accumulo aggettivale, che raggiunge delle punte bellissime, di amplificatio ed eloquenza, in Faulkner (poesia, anche se incastonata in romanzi). Alcuni esempi da Intruder in the dust:

    1. the narrow delicate almost finicking mule-prints

    2. six lazy idle violent more or less lawless a good deal more than just more or less worthless sons

    3. the trunks of the high strong constant shaggy pines, solitary but not forlorn, intractable and independent

    4. cold lightblue tearshaped apparently heatless flames

    Perché questi sintagmi carichissimi di aggettivi funzionano così bene?

    A) anzitutto, sono parti letterariamente dense che si alternano a parti più estese di narrazione, secondo un principio di non-omogeneità che è più difficile ottenere nello spazio breve (tradizionalmente breve, ahimè) del testo lirico.

    B) I referenti descritti sono carichi di significato, e proprio per questo devono essere precisati: le tracce del mulo (1) sono indizi importanti su come il dissotterramento di un cadavere sia avvenuto, e quindi hanno un’importanza proprio semiotica; in (2) vengono tratteggiate delle persone, classe semantica quasi intrinsecamente ‘degna’ di attenzione (sembra una visione antropocentrica, ma cognitivamente ed evoluzionisticamente è così); in (3) i pini hanno valenza simbolica, al punto che quello dell’albero solitario è un simbolo o cliché (simboli e cliché sono vicini) discusso da Riffaterre in riferimento a Wordsworth; in (4) le fiamme sono il secondo termine di una metafora usata per descrivere un anziano, e quindi vale lo stesso discorso fatto per (2)

    C) Ordine e selezione degli aggettivi: in (1) disposti secondo una climax di informatività crescente, dal fisico (narrow) al fisico-psicologico (delicate) allo psicologico (finickying), con iconismo della ‘penetrazione’ dello sguardo che esamina; in (2) l’isotopia negativa/privativa che percorre gli aggettivi, con endiadi (‘lazy idle’) e variazione sintattica (per modifica avverbiale: ‘more or less’, ‘a good deal more’) e ripetizione lessico-morfologica (‘less’); in (3) alternanza di collocazioni standard (strong, shaggy; ‘shagged’ modifica un altro albero, ‘jupiters’, in Stevens) e collocazioni inconsuete (‘high’, ‘constant’), e – come negli altri casi – agglutinate asindeticamente e senza interpunzione. Inoltre, precisazioni semantiche (correctio) per cui sinonimi vengono stavolta contrastati anziché giustapposti (‘solitary but not forlorn’), e uso di un aggettivo (‘intractable’) usato per l’uomo condannato d’omicidio altrove, molte pagine prima, e quindi implicita equivalenza di uomo e albero; in (4) ridondanza sinonimica dove il secondo termine ha maggiore informatività del primo (‘cold’, ‘heatless’), cromatismo che si sposa alle fiammelle domestiche (blu) ma che devia dalla rappresentazione di default delle fiamme (rosse), e aggettivo composto (‘tearshaped’), prezioso ma al tempo stesso denotativamente accurato: le fiammelle davvero hanno forma di lacrima.

    Ecco, quando qualcuno di noi avrà raggiunto almeno il 10% di questa maestria, potrà giocare e strafare con gli aggettivi.