Avendo tentato, qui, una definizione e una preliminare tipologia di serialità, vorrei ora pormi il seguente quesito: quali sono le possibili motivazioni che conducono alcuni autori verso versioni forti di serialità (tipo 3 nell’articolo precedente), e quali i rischi o limiti connessi?
Anzitutto, mi pare che la serialità sia consustanziale a un’ansia epistemica che mira a catalogare, e idealmente esaurire, una circoscritta regione cognitiva ed emotiva (della vita, dell’esperienza, della storia…) osservandola per minimi slittamenti e quindi con attitudine analitica. Da qui deriva il bisogno strutturale di una cartografia esplicita – le invarianti del tema e della forma, delle ricorrenze insomma – che metta in luce le differenze fra testo e testo o fra sfaccettature dello stesso tema, isolandole come in laboratorio.
Questo obiettivo è molto più facilmente intuibile nelle arti figurative, plastiche e installative le quali, a differenza della lingua – medium anzitutto temporale – sospendono il tempo: vengono in mente le ninfee instancabilmente dipinte da Monet, dove l’invariante tematica si accompagna alle varianti della luce, del tempo atmosferico, dell’angolazione; o le nature morte artigianali o industriali di Giorgio Morandi, dove il focus ossessivo e prolungato su pochi oggetti e poche forme permette un’esplorazione certosina della loro disposizione spaziale e dei conseguenti rapporti che intercorrono fra loro; per stare nel contemporaneo, penso anche a un’installazione di Paulina Pukytė dal titolo Muilas (sapone), vista a Vilnius di recente, dove decine di saponette raccolte da altrettante città sono esposte su una parete, ciascuna nella sua bustina accompagnata da un’etichetta con l’indirizzo preciso del rinvenimento:

Dettaglio di Muilas, installazione di Paulina Pukytė. Foto di Davide Castiglione.
L’attitudine è comparativa ed etnografica; l’effetto è simile a quello sortito da collezioni di specimen fossili o geologici in un museo di scienze naturali. Quest’opera, per inciso, mi ha colpito perché mostra la divaricazione fra un concetto pur semplice e umile come quello di saponetta, e l’infinita varietà materiale a questo sotteso, campionato con esemplari di forme e colori diversi, con gradi diversi di consunzione, recanti anche le tracce indessicali di chi le ha usate nel tempo. Esemplari tutti accostabili per funzione e definizione, dunque, eppure fra loro irriducibili per aspetto e storia.
Delimitare e classificare l’esistente è dunque un rimedio all’ansia e alla perdita di controllo. Non stupisce che Mark Roget, il Linneo della lingua, l’inventore vittoriano del tesauro generale, raggruppasse parole in insiemi, sottoinsiemi e sotto-sottoinsiemi anche come terapia personale, argine alla propria vita travagliata e puntellata di lutti. Forse da piccolo obbedivo a uno stesso desiderio d’ordine e controllo quando collezionavo i cucchiaini delle gelaterie o disegnavo città dall’alto senza tralasciare finestre e dettagli architettonici. Non posso escludere che, avendo io sfogato questa ansia conoscitiva cartesiana negli studi accademici, abbia potuto permettermi una scrittura in versi più umorale ed episodica.
Il metodo scientifico obbedisce a un principio simile a quello della serialità: gli esperimenti si sviluppano a partire dai precedenti, aggiustando di volta in volta singoli elementi (cambiando l’ipotesi, un aspetto del modello, una sample population, una variabile ecc.) in base alla domanda o alla limitazione scaturita dall’esperimento precedente. Letti in serie, questi esperimenti assumono caratteri di consequenzialità, di controllo compulsivo-ossessivo e perfino d’ineluttabilità logica. Non proprio di determinismo – altrimenti si saprebbe tutto a priori – ma lo spazio per la libertà e l’improvvisazione, per il libero arbitrio, risultano comunque assai ridotti per il fruitore, proprio perché un gran numero d’invarianti è stato deciso e svelato a priori, proposto pagina dopo pagina, per un senso crescente di saturazione.
La serialità, anche in poesia, è una forma di fedeltà e disciplina che, nel migliore dei casi, limita i capricci e gli automatismi compositivi inconsciamente ereditati da chi scrive: come una nuova metrica o ritmo (l’intuizione è di Gerardo Iandoli), induce a sfumare la propria autorialità entro griglie e forme predeterminate, e sul piano psicologico e morale implica una “sospensione dell’idea di possesso”, come ha scritto Simone Migliazza in un commento in risposta al mio post. Nel peggiore dei casi, può sfociare in coazione a ripetere, in un tentativo di distrarre chi legge dalla poca incisività della pagina singola – la pagina singola, ma direi più ancora il singolo verso, essendo lo spazio agonistico sul quale si esercita la memoria a breve termine, la working memory. Un possibile parallelo con il gioco del calcio è quello fra il guizzo del fantasista che spariglia le carte (il testo o pezzo singolo, il gesto gratuito, la sorpresa del cigno nero) e lo schema collaudato, magari più efficace ma tedioso nella sua ripetitività e meccanicità.
È anche vero che questa implacabilità può essere sfumata e perfino mutata di segno nell’idea del rituale come funzione strutturante. Attitudine quindi antimoderna, se Todorov nella Scoperta dell’America insiste sul carattere moderno dell’improvvisazione contingente (quella dei conquistadores, mossi da interessi pragmatici e strategici) in contrapposizione a quella ciclica e magica degli indigeni convertiti, sottomessi, sterminati. Da questo punto di vista, la ricorrenza intrinseca alla serialità sarebbe più un ritorno del rito, della sua funzione di legamento (un’ipotesi etimologica è che religione valga come legare insieme, unire) che un’arresa iconica alla riproducibilità e alla serialità già intrinseca nell’esistente, nel paesaggio tanto naturale quanto antropizzato (per cui rimando a questo bell’articolo di Simone Migliazza).
Bisognerebbe dunque chiedersi se la serialità, come simulacro di controllo e anche come rituale sostitutivo, assolva a un bisogno sociale avvertito più forte nelle società occidentali che hanno perduto il sacro e sono caratterizzate da un relativismo che non è autentico pluralismo ma moltiplicazione delle ontologie: del resto viviamo in piena epoca postmoderna se lo stesso evento non solo ha interpretazioni opposte, ma se queste interpretazioni creano due eventi inconciliabili a partire da una stessa datità materiale: valgano le coppie “rivoluzione vs colpo di stato” e “resistenza vs terrorismo” a esemplificare la questione. La coerenza interna come contrappeso al caos esterno, il macrotesto come fortino contro la precarietà?
Lascio che la domanda rimanga tale. Va poi da sé che queste considerazioni generali e alquanto astratte andrebbero verificate sulle opere singole, cosa che intendo fare in futuro. Per esempio, in uno dei commenti al mio post originario, Antonio Francesco Perozzi mi ha messo in guardia dal pensare alla serialità unicamente in termini di controllo, evidenziandone invece il carattere di “sfida verso un modo della lingua e dell’esperienza”, a produrre “qualcosa che, paradossalmente, appare inquietante”, e altresì insistendo – qui sono molto d’accordo – sull’inceppamento che la serialità infligge alla dimensione progressiva e temporale (teologica, perfino?), che Antonio riconduce all’etica cristiana. Analogamente, Andrea Inglese ha eccepito – a ragione – sulla mia enfasi della serialità come fenomeno deduttivo e ordinante, giacché, scrive Inglese, “la serie è spesso un programma di avvicinamenti all’oggetto o all’argomento investito poeticamente, ma questo è esattamente il contrario della deduzione”: ha ragione, e credo che questo mio nuovo articolo abbia inquadrato più precisamente la questione. La serialità porta non a deduzione (non a determinismo) ma una sorta di scoperta controllata, cumulativa, analitica, ma difficilmente euristica o fulminea, intuitiva ed entusiasta, come si dà invece nel singolo “pezzo forte” esportabile.
In conclusione, quello che so e sento è che, almeno in me, non sparirà facilmente la nostalgia per, e la tensione verso, un tipo di poesia esportabile, citabile, che possa verticalmente distaccarsi dall’atmosfera orizzontale della serialità, e rispondere piuttosto a una pulsione erotica, d’incontro improvviso e destabilizzante nel suo qui e ora.
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