Autore: Davide Castiglione

  • 18# “Anomalisa”, o la camicia di forza della normalità

    [Sono una persona di pochi ma forti entusiasmi, di lenta ma intensa assimilazione. Mi è dunque tornato in mente un film che quasi un decennio fa mi colpì molto, Anomalisa di Charlie Kaufman e Ducke Johnson. Ne è traccia la recensione che ne scrissi o meglio la riflessione che mi sollecitò nel lontano 2016. Non ho scritto recensioni di altri film in vita mia, eccetto, molto più di recente, su La zona d’interesse. Forse il mio stato d’animo d’allora si accordava perfettamente a quello di Anomalisa; non ho idea quale effetto provocherebbe in me se lo riguardassi adesso. Un paio di anni più tardi avrei letto La pura superficie di Guido Mazzoni, un libro capitale e che mi pare molto in sintonia con questo film. ll testo originale della mia recensione-riflessione, che è più che altro un ritratto del protagonista del film, si trova su Nazione Indiana. Lo riporto qui per intero, dopo tutti questi anni, limitandomi ad apportare alcune minime modifiche stilistiche. Buona lettura]

    Devo scrivere di Anomalisa, l’ultimo film in stop-motion del regista Charlie Kaufman, uscito nelle sale italiane nel febbraio 2016. Mi occupo di critica letteraria, so poco di cinema e non ho mai osato finora cimentarmi nella recensione di film; eppure devo scriverne, se non altro per chiarirmi il più intenso, intimo e inatteso rapimento emotivo, terremoto interiore, provato da molti mesi a questa parte. Non per una poesia, non per un romanzo, nemmeno per una persona. Per un film. La stessa intensità che scattò per Blancanieve (Pablo Berger) e per Mulholland Drive (David Lynch) ma nel caso di Anomalisa forse più introiettata, meno estetica.

    A dar conto di questa intensità certamente c’entra, ma solo in parte, la mia fascinazione per il grottesco a sfondo tragico e per l’uncanny, esemplificati nella balena arenata sulla piazza di un villaggio in Werkmeister Harmonies, di Béla Tarr; certamente anche c’entra, ma ancora una volta solo in parte, la resa del sordido in chiave iperrealista, ma senza esibizione di sé, come uno Edward Hopper trasposto nella pellicola. Più ancora e finalmente c’entra il fatto che il protagonista, Michael Stone (fredda pietra, nome-emblema che può forse richiamare lo Stoner di John Williams), è un me-ombra potenziale, l’accademico che ha interrato la propria freschezza intellettuale per obbedire alla logica del successo che quella freschezza (o spregiudicatezza, non sappiamo – di Michael conosciamo il presente, non il passato) gli ha garantito. In Michael ho intravisto insomma quello che a tratti mi è sembrato di avvertire in me, perlomeno in forma embrionale e da almeno un anno a questa parte.

    Michael è come avvolto da uno schermo isolante, appare morto alla vita e riduce lo scambio con gli altri al minimo indispensabile per le questioni di logistica (l’invito a una conferenza, l’alloggio…). Del linguaggio ha dimenticato non solo gli aspetti espressivi, ma anche quelli simbolici e di rappresentazione dell’esperienza. Ironia atroce per un motivational speaker di successo come lui. Paradossalmente, e quasi per una forma di difesa personale, Michael conserva un rudimento di sensibilità per l’aspetto meno strumentale del linguaggio, quello al tempo stesso più esteriore (fisico) e interiore (psicologico): la musicalità – tono, timbro, intonazione – che scorge solo in Lisa, protagonista femminile e quasi-fiamma sia pur non troppo appariscente. In questo senso, credo, va letta l’ardita ma efficacissima scelta di omologare tutte le altre voci, con effetto dapprima straniante ma che poi va sinistramente assimilandosi nello spettatore. Questa iper-sensibilità per l’aspetto musicale della lingua tradisce tuttavia un grado ennesimo di narcisismo: a Michael non interessa cosa gli altri abbiano da dirgli, non prova interesse per la loro storia e meno che mai per la loro sfera emotiva (troppo banale, prevedibile… o troppo compromettente?).

    Ma Michael è prima di tutto e platealmente disinnamorato di se stesso, nauseato dai discorsi e dalle ricette per il successo che egli stesso ha ideato e che persino ora si accinge a promuovere. Lo fa vigliaccamente, come una coercizione a ripetere, un’impotenza di fronte al proprio stesso successo misurato su parametri esteriori, quantificabili in copie vendute e inviti spesati. In una scena climatica, il film mostra la caduta tragica e penosa del protagonista, quando Michael pronuncia un discorso incoerente e claudicante davanti a un pubblico che era pronto a pendere dalle sue labbra; Kaufman non concede sconti al suo poco amabile ma in fondo fin troppo umano protagonista.

    L’incubo dell’essere voluti e richiesti per la propria immagine pubblica (poiché quella privata Michael l’ha nascosta anzitutto a se stesso fino al punto di rimuoverla) si concretizza, mi sembra, verso i tre quarti del film, nella sequenza onirica in cui Michael è letteralmente inseguito e accerchiato dai suoi ammiratori. La solitudine nella folla, forse la peggiore, la stessa che magistralmente Iac McEwan in Amsterdam tratteggia a proposito del direttore editoriale Vernon Halliday preso d’assalto dai suoi redattori. La stessa che Montale confessò di aver provato a Firenze, quand’era a capo del Gabinetto Viesseux (cito a memoria da un’intervista: “a Firenze ho conosciuto anche troppe persone, e la mia solitudine non era meno intensa che a Genova”).

    Interessante notare che tutti questi personaggi sono uomini, e mi chiedo se questa forma della solitudine (altera, amara, scostante; non eroica, non poetica) insidi soprattutto il genere maschile, che nel suo agonismo tende a recidere i rapporti o  coltivarli solo per servirsene, anziché tenerli cuciti per la bellezza del fatto in sé (insiste sul tema Virginia Woolf in Gita al faro, nel centrale episodio della cena). Mi trovo d’un tratto a pensare – dopo un breve ma vivificante viaggio in Sicilia – che questo film non sarebbe potuto nascere in terre comunitarie, perché è sintomo e denuncia di un capitalismo avanzato che riduce gli individui a monadi. Bersaglio di Kaufman è dunque, indirettamente, l’ossessione degli Stati Uniti per la produzione di manuali sul come parlare, come comportarsi e come vivere, salvo che è poi il vivere come processo e scoperta bastanti a sé stessi a essere accantonato… l’Inghilterra, dove vivo da quasi cinque anni, non sembra poi troppo distante da questa sottile distopia già presente.

    Nemmeno più si sforza, Michael, di essere gentile, benché tutti o quasi lo siano nei suoi confronti – questa è anzi la sua gabbia, la sua condanna. Al tempo stesso gli manca tuttavia la tempra per essere un burbero interessante, per abbracciare interamente la causa dell’antipatia. Il suo scansare gli eccessi in negativo e in positivo è vòlto a scoraggiare l’empatia dello spettatore; la sua mancanza di intelligenza emotiva non gli viene perdonata perché compensata da chissà quali altre doti. Certo, intuiamo qualcosa della sua intelligenza libresca dal modo in cui viene riverito (l’onorifico “professore”), ma come un residuo di glorie passate, un’immagine di sé che Stone rispolvera senza farci più i conti. Come un attore chiamato a ripetere una parte che una volta doveva essere vibrante, autentica; questo Sé precedente e sepolto si riaffaccia infatti fugacemente nell’incontro con Lisa, durante il quale Michael si trasforma in un adolescente innamorato ancorché con tendenze a ipostatizzare la donna in un’idea, a non lasciarla essere e respirare per quello che lei è. Michael insomma abitò profondità che nessuno sembra saper smuovere più in lui: lo dicono l’estrema lentezza dei suoi gesti e i minimi (ma per questo tanto più significativi) movimenti del suo volto. Ecco, io credo di essere stato, per brevi istanti ma più volte, un Michael con trent’anni e con molto successo in meno. La breve prosa che riporto qui sotto l’ho scritta qualche mese prima della visione del film, a riprova di una sensibilità in potenza comune, una convergenza indesiderabile che dovrebbe agire come un allarme:

    È un genio triste, nei suoi momenti migliori. Quando no, gli si spalma addosso una stoltezza sensoriale a prova di tutto fuorché del tempo, che la conosce e l’infiltra, minando il sottostante. Messo di fronte all’evidenza del cielo stellato, constata che è in alto, buio e assai grande. Al limite, detto cielo gli ricorda una giacca gravata di forfora, ma lo humour non è il tempo e pertanto non passa. Stira i muscoli facciali in una smorfia di meraviglia perché nel contesto appropriata. Distinguere gli aerei dalle stelle cadenti è facile fino alla noia.

    Il sostrato emotivo, psicologico, è affine. La mia mente intertestuale non può a questo punto non viaggiare (terremoto emotivo della stessa qualità, per la stessa identica estraneità là veicolata) fino al Lupo della steppa di Herman Hesse (anche qui, il protagonista Harry è un intellettuale di mezza età) nonché al Gabriel intellettuale disadattato de I morti di Joyce, cui sembrano far da eco emotiva questi versi di Sereni: “si pensa ad essi [i versi] mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultimo giorno dell’anno”). In sostanza, si perde la meraviglia del mondo: inizialmente perché si è creativi e si ha in odio la ripetizione, ma poi perché non si è in grado di affinare lo sguardo, di trovare e accettare il bello al di fuori dell’eccezionale – tale a Michael era parsa la voce di Lisa nel tempo fuori dal tempo di una conferenza, nell’anonimo sfondo di una città che per una volta non è né New York, né Los Angeles, ma soltanto Cincinnati, tra l’anonimia e l’anomalia del titolo (morfologicamente, un blending). L’idillio bruscamente si infrange – con la voce di Lisa che torna uguale a tutte le altre in uno dei momenti più amari del film – proprio quando lei inizia a innamorarsi e a desiderare di condividere la propria vita quotidiana con Michael: colazione, progetti per il futuro… Cosa è andato per il verso sbagliato? Che la realtà si è presa la sua rivincita sulla mente tirannica e infantile di Michael; che Lisa si è rivelata essere una persona a tutto tondo, molto più sfaccettata del timbro di una voce in cui le manie depressive e l’estasi estetica di Michael avrebbero desiderato confinarla. E Lisa, personaggio positivo del film in crescendo e fino all’epilogo, dimostra infine di essere assai più matura di Michael, accettando la natura di lui e superando la propria delusione amorosa. A Michael al ritorno dalla conferenza resteranno i visi amici e forse un po’ pressanti dei parenti che l’aspettano, che non lo capiscono, e che lui ricambierà non capendoli, proprio come il Gabriel de I morti.

  • 17# Su “Double Negative Pyramid” di Sol Lewitt

    Vilnius, Europe Park. Quella che vedete in foto è la Doppia piramide negativa (Double Negative Pyramid), di Sol LeWitt, artista americano legato all’arte concettuale e al minimalismo.

    La piramide è doppia perché si riflette in un laghetto artificiale, anche se questa foto non lo mostra. E’ negativa nel senso fotografico del termine perché è il calco di una piramide, cioè la piramide è lo spazio scavato.

    Mi piace come questa scultura giochi – deconstruendolo – con il concetto di potere. La piramide è ovviamente il simbolo non solo dei faraoni egizi, e quindi di un’autorità indiscutibile e divina; ma anche la rappresentazione grafica della gerarchia, delle disuguaglianze. Qui però è negata, scavata, come la terra che si ritrae nell’orrore della caduta di Lucifero; la punta è letteralmente il livello più basso. Inoltre, il suo minimalismo geometrico anni ’60 non è poi lontano dal modernismo fascista e non solo anni ’30 – quello dell’EUR di cui ho scritto nel post precedente. Ma letteralmente lo svuota, lo muta di segno, non celebrando un bel niente. Le linee nette, geometriche, contrastano poi vigorosamente con quelle imprevedibili e flessuose del bosco circostante.

    Non solo: la scultura invita, proprio a livello di interazione fisica (di ‘affordances’) a scalarla, come ho fatto io. Dà ancora un’illusione di potere perché può ricordare un trono. Solo che le sue dimensioni mi fanno apparire come un ragnetto o una macchia nel mezzo, frustrando quindi questa vanità. ‘Pull down thy vanity’, ingiungeva Pound a sé stesso. Dovremmo farlo più spesso, specie noi uomini (non tutti) dalle tendenze egotiche e narcisiste.

  • 16# Roma: EUR o della penitenza

    Attraversare gli spazi dechirichiani dell’EUR non è una passeggiata. Letteralmente: somiglia più al pellegrinaggio in un rovescio di Purgatorio, a una catabasi penitenziale nell’ottusità autoritaria e infantile di potenza (“un leader e l’infante che lo tiene per mano”, scrissi in un vecchio verso), che schiaccia le persone sotto edifici imperiosi e uniformi. Snobbati da turisti e da locali, veramente deserti: sono i palazzi meno che secolari dell’EUR le vere rovine, il rimosso del nostro passato recente, e non i fori imperiali che prosperano del commercio quotidiano col turismo e dove la parola “impero” può essere pronunciata senza sensi di colpa o nostalgie conservatrici: a ripulirla e smerigliarla provvedono già i millenni trascorsi (il tempo rifatto gentiluomo), nonché gli ultimi decenni di gadget e film epici, una presunta grandezza che sa d’evasione. I sogni espansionistici e gli slogan gravemente incisi sui frontoni di questi rettangoli modernisti mi arrivano addosso come voci ridicole eppure oggi nuovamente rivendicate da altri Stati, nell’ossessione tribale per la terra che si controlla senza saperla vivere, ovvero ascoltare. Vale infine la pena di elencare alcuni di quei minimi attori che rallentano il passo e lo aggravano sopra un piano orizzontale ma faticoso: l’erba riarsa, l’afa stagnante che in altre parti di Roma sembra convertirsi in un caldo secco e schietto, i vetri rotti sulla scalinata del Palazzo della Civiltà Italiana. Pochi nomi, per inciso, suonano più antifrastici di questo; il racconto “Davanti alla Legge” di Kafka potrebbe benissimo essere ambientato qui, davanti alla scalinata di questo edificio recintato, chiuso al pubblico, dalle attività ibernate o mai avviate, con all’ingresso una guardia come una macchietta inespressiva; guardia che quando mi sono avvicinato e ho chiesto se fosse possibile entrare in questo grande cubo, mi ha risposto quasi senza fastidio e quasi senza sorpresa, e – va da sé – senza umorismo.

  • 15# Una questione complessa

    4–7 minuti

    “Eh, ma è una questione complessa…”. Quante volte abbiamo sentito o letto questa frase, specie in certi dibattiti su temi cosiddetti sensibili – che poi sarebbero tra quelli più centrali ed urgenti? La complessità evocata dal nostro interlocutore ogni qualvolta prendiamo posizione su temi appunto sensibili o divisivi è meno ancora di una strategia pseudo-argomentativa: è in realtà un invito indiretto a troncare o dirottare il dibattito. Un invito usato, per esempio, tanto da quelli che difendono Israele contro ogni evidenza e contro ogni morale quanto da quelli, solo in apparenza opposti, che considerano l’Ucraina il puppet state di una guerra per procura – da bravi cospirazionisti che confondono l’essere di sinistra con l’essere antiamericani.

    Per prendere sul serio il concetto di complessità, occorre anzitutto restaurare l’integrità semantica delle parole. Cosa vuol veramente dire “complesso”? “Complesso”, nel senso tecnico del termine, significa ciò “che risulta dall’unione di più parti o elementi […] che ha diversi aspetti sotto cui si può o si deve considerare e di cui bisogna tener conto” (Treccani). La complessità vera insomma è struttura al quadrato: costruire un edificio è complesso perché articolato in tantissime fasi di progetto, dalle misurazioni sonore e geologiche alla scelta dei materiali, per non parlare dell’aspetto burocratico e legale, degli innumerevoli permessi da richiedere e delle norme da rispettare; è certamente complesso un motore a turbina; è complesso un testo letterario perché oggetto multidimensionale con aspetti ritmici, semantici, ideologici; è ipercomplesso un organismo vivente, altrimenti non si spiegherebbe l’esigenza di miriadi di specializzazioni mediche, ciascuna delle quali richiede anni e anni di studio e pratica.

    In casi come questi, tuttavia, la premessa è che la complessità sia leggibile come un agglomerato di parti discrete e in relazione (spesso gerarchica o causale) fra loro. Un testo, per esempio, può avere tanto coesione semantica quanto frasi solo coordinate (e non subordinate), e però fra queste due proprietà solo la prima è discriminante per assegnare a una stringa di parole la qualifica di testo (almeno secondo Robert De Beaugrande e Wolfgang Dressler, Introduction to Text Linguistics, 1981). Essendomi occupato di difficoltà, oscurità e complessità, questi sono argomenti che ho studiato a fondo. O per fare un esempio alla portata pressoché di tutti: sia il motore che lo specchietto retrovisore sono parti di un insieme complesso, l’automobile. Vanno per questo trattati allo stesso modo? meritano cioè la stessa incidenza sul nostro concetto di automobile? No, per niente.

    Quando però si usa il termine “complessità” per trasferirlo su un piano storico-geopolitico-sociale, il vero significato sottinteso diventa “intricato” e quindi “fumoso” o “fangoso”: non più una complessa formazione cristallina ma una mappazza, insomma. O uno schermo che finisce per rendere nere tutte le vacche. Dietro questo schermo fittizio scompaiono verità materiali ed elementari quali quelle di aggressore e aggredito, nonché l’esistenza regolatrice di coordinate terze (per esempio il diritto internazionale) e i rapporti di bruta forza in campo. Questo perché ci si rifiuta di stabilire priorità fra gli aspetti di una questione, di vedere alcuni come più basici o fondativi degli altri. Siamo quindi alla trasformazione, anzi allo svuotamento, del concetto stesso di complessità: che diventa, nelle varie teorie della cospirazione, una mera espansione rizomatica di aspetti e cavilli (il postmoderno è contro di noi e continua a combatterci con successo) tra loro tutti ugualmente degni di considerazione. L’errore di voler estendere un principio social-politico come l’antigerarchismo alla struttura del reale è enorme e ha conseguenze nefaste per la conduzione del dibattito e quindi per le fondamenta stesse del vivere civile.

    Perché allora usano “complessità” e non “intrico” o “mappazza”? Beh, il richiamarsi alla complessità permette di sviare con eleganza assumendo una severa, dignitosa postura “intellettuale”. Affermare che qualcosa è scandalosamente semplice, quantomeno nelle sue linee essenziali, oggi fa passare per ingenui o per fanatici propagandisti. Ma la propaganda oggi funziona non solo proponendo manicheismi semplici (per es. buono vs cattivo, civiltà vs barbarie) ma anche moltiplicando i cavilli ad hoc e infischiandosene del principio di non contraddizione: esistono decine di presunte motivazioni per l’invasione russa, e proprio perché sono tante, si finisce per accettarle tutte o accettare quella che fa al caso proprio. Una bassa tecnica di vendita, insomma, alla Berlusconi – come notava Umberto Eco in un articolo intitolato ‘Tecniche del venditore di successo’ e pubblicato su “La Repubblica” nell’ormai lontano 2003:

    Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente, gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su  quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere.

    Spesso, quindi, la tanto decantata complessità altro non è che un moltiplicarsi informe di pretesti, argomenti, un’espansione egemonizzante. La variante populista di questa presunta “complessità” è un fenomeno noto come “both sideism“, che esattamente allo stesso modo finisce sempre per assolvere il forte equiparando vittima e carnefice, aggredito e aggressore. Così lo descrive lo storico Timothy Snyder in un bell’articolo su Substack (mi limito a riportarne un passaggio):

    Both-Sidesism is another dualism. When confronting a phenomenon, for example an election or a party convention, the acolytes of Both Sides perform two steps. They reduce events to two personalities, then treat them as equal aspects of the two-headed divinity known as Both Sides. Again: that there only two sides, and that the two aspects are the same, are unspoken articles of faith. Once this initial ritual has been performed, the task of the priesthood is to sense disturbances that disrupt the apparent equality of the two aspects of Both Sides. The mythic utterances of the priests of Both Sides – bad journalism — resolve the cultic tension that appears when a difference between the two aspects emerges.

    Che il paravento sia un’intrattabile “complessità” o l’apparenza ecumenica e sobria del “ci sono sempre due parti in gioco/due campane/due lati della medaglia”, il risultato è lo stesso: indebolire o sopprimere il dibattito con una formula fideistica che letteralmente impedisce di guardare alla struttura (multidimensionale e questa sì, complessa nel vero senso del termine) della realtà che ci tocca – o che ci dovrebbe toccare.

  • 14# Lirismo che dimentica il mondo

    2–3 minuti

    L’effetto spesso lezioso o pretenzioso di tanto diffuso lirismo deriva da un desiderio di sintesi che in realtà non è condensazione di vissuto, ma sua mutilazione: ci si illude, cioè, di attingere al sublime non per una via d’ascesi che parta dall’ascolto e dall’attraversamento del sensibile e della propria psiche (come, massimamente, in Emily Dickinson) ma per via diretta, come se si fosse graziati da una privilegiata telepatia con l’iperuranio. I risultati sono quasi sempre poverissimi, plastificati, proprio perché spogliati da ogni attrito della vita fenomenologica, che è anche sangue, sudore, attrito. Purificazione non per fuoco, dunque, ma igiene schifiltosa, anche latamente violenta.

    Dimostro questo assunto partendo da due versi del poeta cubano Antonio José Puente. Sono due versi che amo molto e mi porto dietro da anni. Sono tratti dalla poesia Sei minuti di conversazione con l’estero, nell’antologia di poesia cubana L’isola che canta, che recensii oltre dieci anni fa qui.

    “ci siamo assottigliati fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    Nella poesia, questa clausola è l’amara realizzazione del poeta, che avverte la sopraggiunta estraneità nei confronti dell’ex amata: una situazione in cui molti di noi si saranno trovati, quando il legame sentimentale si scioglie, ma perdura comunque un rapporto cordiale. Il “chiedere del clima” è il classico esempio di small talk che si fa con gli sconosciuti, e qui indica estraneità e imbarazzo. L’assottigliamento è un appiattimento, e il lettore può solo immaginare l’entità del tutto diversa delle conversazioni fra i due amanti in tempi migliori. Trovo questi versi molto riusciti non solo perché intercettano una regione emotiva complessa con economia di mezzi, ma anche perché la rendono palpabile, immettendola nella situazione della telefonata.

    Imitando il poetese dominante, è possibile piano piano rovinare la bellezza di questi versi in maniera graduale ‘mutilandoli’ secondo una derivazione che conduca a un lirismo più astratto, cioè decontestualizzato. Ecco come:

    1. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    (un po’ piu’ lirico – sparisce l’ancoraggio deittico del passato prossimo in favore di un presente astorico, assoluto – la situazione è ciclica, perpetua, irreversibile dunque)

    2. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci”

    (piu’ lirico ancora – sparisce la relativa di circostanza)

    3. “ci assottigliamo fino a queste voci”

    (piu’ scorciato-ellittico, la proposizione finale diventa un semplice sintagma)

    4. “ci assottigliamo fino alla voce”

    (cade l’ancoraggio del deittico di prossimità “queste”, la voce si fa grammaticalmente singolare e dunque diventa un concetto astratto”, non piu’ legato a una conversazione specifica; le voci perdono la grana timbrica che potevamo immaginare)

    5. “l’assottigliarsi fino alla voce”

    (cade il “noi” in favore della forma impersonale, l’umano è finalmente estromesso in puro evento esterno)

    Ecco, molta poesia d’oggi pratica le soluzioni 3, 4 o 5, anziché l’originale o le sue versioni leggermente liricizzate, 1 e 2. Non c’è da stupirsi: la sospensione della realtà ‘sporca e cattiva’ è tornata in voga almeno dal postmoderno, e adesso la stiamo pagando tutta nei negazionismi e nelle manipolazioni che ci stanno intorno. La poesia resa astratta ne è appena uno dei sintomi, rumore di fondo nell’egemonia del puramente verbale.

  • 13# La cecità dello specialista. Contro una critica a “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer

    8–12 minuti

    Di recente mi sono imbattuto in alcune recensioni su La zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer – film da rivedere perché a rilascio graduale, con quella sua capacità di insinuare residui e grumi nello spettatore, che dovrà tornare a farvi i conti a pellicola conclusa. Com’è giusto che faccia l’arte in generale.

    Non sono un critico cinematografico né tantomeno un esperto di Shoah, ma mi sconfortano certe modalità di recensione che, nonostante la loro erudizione (o proprio a causa di questa), sembrano andare spettacolarmente fuori strada. Desidero concentrarmi sulla recensione uscita su Antinomie a firma di Arturo Mazzella: il recensore è un esperto del rapporto fra Shoah e immagine, tema indagato nel suo recente libro La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini. Sulla carta, pertanto, nessuno meglio di lui sembrerebbe qualificato a valutare il film di Glazer. La recensione (o forse sarebbe meglio chiamarla ‘riflessione critica’) appare serrata nell’argomentazione. Ecco come si sviluppa:

    1. Mazzella inizia rilevando il consenso generale e quasi unanime intorno al film di Glazer, tracciando paralleli con la ricezione riservata a film precedenti sullo stesso tema (La vita è bella, di Benigni, e Il pianista, di Polanski);
    2. A questo punto, però, egli introduce la critica portante, che accomunerebbe i tre film: la loro incapacità di mostrare “il groviglio di contraddizioni e conflitti che vanno al di là dell’opposizione tra vittime e carnefici, tanto ovvia da non consentire alcuna integrazione”;
    3. Questa tesi è portata avanti per tutto il resto dell’intervento. In sostanza, il film viene accusato di un impianto manicheo, basilare, ricalcato “sugli stereotipi ereditati dal passato”. A Mazzella sembra dispiacere, in particolare, l’assenza “di ipotesi esegetiche molto più ardite”;
    4. Per portare avanti la tesi di cui sopra, egli si appella a Godard, alla sua poetica del montaggio stridente fra diverse sequenze nelle Historie(s). Scrive Mazzella che “proprio una “seconda” immagine è quello che manca del tutto alla Zona d’interesse“. Questa monotona uniformità, insomma, non permetterebbe di esplorare il conflitto e la tensione di cui al punto 2.

    Spero che questo riassunto non faccia torto al lavoro di Mazzella; il lettore, ad ogni modo, potrà verificarla da sé al link sopra.

    Intuisco un problema fondamentale, direi persino epistemologico, in tutto l’intervento. Mi riferisco all’imposizione top-down, dall’alto, di assunti storiografici, ermeneutici ed estetici (il modello di Godard), che vengono disattesi o ignorati dal film, con comprensibile scontento del recensore. Il film insomma gli pare imperfetto o perfino sbagliato perché non risponde a una serie di requisiti o aspettative. Il film non viene davvero guardato, ma studiato come un saggio, e misurato su un’estetica diversa – quella di Godard – assunta dogmaticamente come golden standard. E’ questa forzatura categoriale la cecità cui faccio cenno nel titolo del mio post.

    Significativamente, Mazzella non si prende mai davvero la briga di analizzare a fondo la regia. Vi accenna, sì, come nei due passaggi qui sotto, ma sorvolandola più che addentrandovisi:

    ”nonostante la magistrale regia di Glazer, il film parte da tale opposizione [tra vittime e carnefici] per arrestarsi a essa, snodandosi lungo un asse narrativo decisamente statico, al cui interno l’antagonismo tra vittime e carnefici si esprime attraverso la modalità più elementare”

    le tracce della loro esistenza [delle vittime] sono affidate unicamente al sonoro proveniente dal fuoricampo. Una tecnica cinematografica la quale, mai come in questo caso, aderisce capillarmente a ciò che essa designa. Il fuori-campo, utilizzato da Glazer con indiscutibile maestria (come dimostra il premio Oscar per il miglior sonoro attribuito al film), coincide infatti con la scelta di escludere drasticamente dallo schermo ogni immagine che si riferisca al campo di Auschwitz, evocato solo dall’insistente ellissi ottenuta attraverso gli scorci delle mura che lo circondano e i suoni che provengono da lì.

    Nel primo passaggio riportato v’è l’assunto, tutto da dimostrare, che la complessità sia un valore in sé, e l’elementarità invece qualcosa da cui fuggire. Non è così, e per almeno tre motivi:

    • Primo, Mazzella, non avendo davvero analizzato (cioè descritto e interpretato dal punto di vista delle intenzioni del regista) la regia, cioè la lingua e quindi il modo di pensare del film, non può permettersi di tacciarlo di semplicità. Per sapere se qualcosa è semplice o complesso, bisogna analizzarne la struttura, le superfici. Mazzella questo non lo fa.
    • Secondo, vari studi empirici di ricezione – benché sulla poesia – hanno dimostrato che la complessità è un valore occidentale, e non può applicarsi globalmente a patto di voler fare del “colonialismo concettuale”. A pensarci bene, l’argomento non tiene nemmeno all’interno della nostra cultura: forse che le chiese romaniche sono peggiori di quelle barocche perché strutturalmente più semplici, più essenziali?
    • Terzo, la complessità può vestirsi di semplicità, come nel caso del modernismo pittorico che si ispirava all’apparente semplice naivismo delle culture tribali. Qui la complessità risiede non nella struttura ma nell’audacia di spezzare un paradigma consolidato – quello del Rinascimento e del suo prospettivismo umanistico.

    Il secondo passaggio sembra meno sbrigativo, e però anche qui ci si limita a elencare le tecniche senza davvero attraversarle, senza cercare di capirne la funzione. Le tecniche sono insomma rilevate in quanto forme, e perciò stesso accettate o respinte. Per esempio, come spiegherò meglio fra poco, l’importanza del sonoro nel film è capitale, assumendo proprio il polo dialettico di cui Mazzella lamenta la mancanza. Il fatto che l’ellissi sia “insistente” (a detta dello stesso Mazzella) dovrebbe far sorgere qualche dubbio circa l’entità della rimozione del punto di vista delle vittime.

    La mancata analisi della regia non è solo un problema di focus, ma un vero e proprio buco metodologico che sconfessa l’argomentazione principale. Infatti, quanto Mazzella scrive al punto 4 si rivela essere falso in maniera lampante. Glazier, è vero, non si serve del montaggio drammatico alla Godard, però ne opera uno più sottile, anzi, ne inserisce di vari e su vari livelli. Anzitutto, l’uso pervasivo dell’ellissi (per esempio, il fumo degli inceneritori che si intravede dalla casa del Comandante di Auschwitz Rudolf Höss e la sua famiglia) può essere esso stesso interpretato, dal punto di vista percettivo, come una forma di montaggio simultaneo (un collage insomma) dove elementi contrastanti non vengono relegati a scene distinte ma sono co-presenti nella stessa scena (frame). Ciò richiede una fruizione non seriale bensì parallela, sinestetica, più coinvolta e meno analitico-distaccata. L’uso dell’ellissi viene criticato perché esso andrebbe contro l’abbondanza testimoniale della Shoah:

    Se c’è una tecnica narrativa che oggi – dopo un’alluvione di testimonianze cinematografiche, letterarie e artistiche, ovviamente di qualità eterogenea – non può offrire alcuno spunto di riflessione sulla Shoah questa è l’ellissi.

    Tale affermazione dogmatica e assertiva manca totalmente il punto: l’ellissi è provocatoria e proficua esattamente perché l’evidenza testimoniale è abbondante. Tenendo presente che oggi è in corso un plausibile genocidio a Gaza, Glazer intende mostrare che ormai le immagini hanno smesso di toccarci, di scuoterci, proprio perché ne siamo travolti, sopraffatti. Siamo, per la maggior parte, insensibili al visivo.

    Inoltre, come già accennato prima, l’operazione di montaggio concettuale più decisiva in La zona d’interesse si realizza a livello del rapporto tra visivo e sonoro: il sonoro perturbante e iperrealistico del film (Mazzella ha ragione a dire che ‘aderisce capillarmente a ciò che designa’, ma sembra dirlo a mo’ di critica) è, a detta di Glazer stesso, un vero e proprio ‘film’ parallelo, di pari se non superiore dignità rispetto al film visivo. E’ nel sonoro infatti che si realizza il polo dialettico che letteralmente Mazzella non vede o non vuole vedere. Come sappiamo dal cognitivismo, anche il suono è immagine, cioè suscita imagery nello spettatore. L’alternarsi del lungo, in apparenza ‘banale’ film visivo e del breve, drammatico film sonoro è il meccanismo che crea tensione e conflitto. Sorprende che la parte sonora del film, che è da capogiro e che rappresenta davvero le vittime, nella recensione occupi sì e no mezza riga. L’incapacità o il rifiuto di dare al sonoro statuto di immagine (e quindi statuto semiotico di rappresentazione) conduce a questa conclusione:

    ”Del tutto assente, però, nel film di Glazer [la terza figura che emerge dalle due in opposizione], la cui restrizione del punto di vista a una sola prospettiva non può che restituire il luogo comune della “banalità del male”.”

    Ma non è vero che nel film c’è solo la prospettiva dei carnefici (dei tranquilli oppressori di cui scriveva Fortini in Traducendo Bretch): quella delle vittime è articolata (disarticolata) nel sonoro stridente, proprio perché le vittime non hanno il controllo dell’informazione, e sono ridotte al silenzio (non dovrebbero servire i trauma studies e i colonial studies a ricordarcelo).

    Un’ulteriore strategia dialettica messa in atto dal film, e del tutto ignorata da Mazzella, è l’irruzione di scene girate in notturna coi raggi a infrarossi, a rappresentare il bene, divenuto pericoloso e quindi da fare di nascosto: queste scene sono un contraltare all’afosa, cristallina e statica distanza con cui viene rappresentata la famiglia di Rudolf Höss. E quindi il principio di Godard – che è un principio estetico fra l’altro, non una legge inviolabile! – viene rispettato, anzi innovato, senza l’ortodossia che Mazzella avrebbe desiderato. In sostanza, il critico sembra non aver guardato l’intero film, o sembra averne rimosso aspetti decisivi, o sembra averlo guardato con occhiali del tutto inappropriati. Come dicevo prima, senza una complessiva descrizione del film, anche le conclusioni che se ne traggono sono falsate. Sembra banale doverlo ribadire, ma è così.

    Infine, nel passaggio citato più sopra, Mazzella si lamenta che il film non va oltre “il luogo comune della banalità del male”. Ma la banalità del male non è un luogo comune: è semmai una formula icastica, memetica e potentemente sintetica. Né i luoghi comuni sono innocenti: “la forza del luogo comune, dolorosa” scriveva Vittorio Sereni in una sua poesia. Ma l’arte può e anzi dovrebbe riproporre verità banali, senza per questo farsi pigra o ideologica: la sua modalità non è quella della conoscenza razionale, speculativa o pedissequamente archivistica che sia, per cui si chiederebbe a un film di dare un contributo paragonabile a quello richiesto a un trattato scientifico o filosofico; ma piuttosto risiede (o può anche risiedere) nell’apprensione sensoriale, nell’intelligenza della percezione risvegliata e perfino liberata dalle ipotesi esegetiche (rendere la pietra nuovamente ‘di pietra’, nella formulazione di Shklovsky). Per esempio, una delle cose che maggiormente mi hanno colpito del film sono i colori saturi e un po’ sfocati, afosi, che a guardarli bene mettono difficoltà nel respirare, come se fossero essi stessi fumo tossico: in una scena superlativa dove vari tipi di fiori vengono ripresi, la loro minacciosità (acuita dal sonoro) diviene evidente al punto di inchiodare lo spettatore: le corolle sono aperte come forni crematori.

    Altro aspetto dialettico: benché la maggior parte del minutaggio sia dedicata agli oppressori, il prevalente campo medio-lungo impedisce qualsiasi identificazione empatica: si è abbastanza lontani da non essere loro, ma abbastanza vicini da non essere a loro del tutto estranei. Se – come un altro recensore aveva sperato – Glazer avesse optato per primi piani, l’effetto possibile (e deleterio) sarebbe stato quello di una complicità al limite dell’ammirazione, dell’identificazione con il carnefice. E’ tale identificazione morbosa quella che che viene propinata in molti film sui serial killer, ed è manipolatoria e dunque poco etica.

    Un’ultima nota. Il sonoro, così come i minuti di buio all’inizio, così come le sequenze a raggi infrarossi, sono minoritari dal punto di vista del minutaggio, ma hanno un impatto e una significanza infinitamente maggiori. Sono la deviazione dalla norma, sono l’emersione dell’inconscio (dell’umanità repressa altrove) che erompe per poco ma in maniera abissale, indimenticabile. Consiglierei dunque a Mazzella di riguardarsi il film, sgravandosi delle convinzioni immobilizzanti che ha maturato in quanto esperto della materia.

  • 12# Antiempirismo: Trump, Wittgeinstein e la percezione-realtà in pericolo

    12# Antiempirismo: Trump, Wittgeinstein e la percezione-realtà in pericolo

    Immagine generata dall’AI

    Ovvio che nemmeno la percezione pura e semplice, ovvero i sensi non amplificati dalla tecnologia, sia del tutto affidabile nel conoscere la realtà. Non lo è per quanto riguarda il mondo microscopico né quello macroscopico – altrimenti penseremmo la Terra ancora piatta; non lo è quando ci sono effetti d’illusione ottica, o di natura sinestetica come l’effetto McGurk, dove un labiale disallineato con ciò che udiamo ci porta a percepire un suono intermedio fra le due fonti – visiva e audio. Non lo è, o almeno non facilmente, quando si tratti di discernere i deepfake. Non lo è come base per le predizioni, come insegna Popper. E non lo è anche perché la percezione ha una forte componente top-down, cioè di predizione probabilistica, che impone schemi su quanto vediamo: può capitare, per esempio, di scambiare una macchia a stella o una foglia accartocciata per un insetto, nell’arco di decine di millisecondi che però bastano a farci trasalire.

    Tutte queste ragioni, però, non giustificano la deriva anti-empiricista sulla quale il costruttivismo e i vari postmodernismi ci hanno incanalato, e che è diventata un fenomeno di massa con i cospirazionismi, e il rifiuto di taluni a glissare su evidenze mastodontiche adducendo principi o richiamandosi a surstrati ideologici. Tale deriva non va derubricata a moda intellettuale: è nientemeno che un assalto al senso comune, e quindi alla coesione fra le persone e gli esseri, la possibilità stessa di pensarci esseri sociali e di agire di conseguenza. Se io e te vediamo la stessa sedia, possiamo dibattere se questa sedia sia comoda o meno, e quindi convergiamo su qualcosa di solido, impariamo gli uni dagli altri. Oggi lo statuto stesso di questa realtà è fragile, molti ci trascinano su questioni ontologiche: esiste o no la sedia? esiste o no la crisi climatica? siamo sicuri che non sia una montatura?

    Non è un problema recente: come scrive Maurizio Ferraris in ‘Manifesto del nuovo realismo’, ‘Dagli scettici antichi a Cartesio, sino alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, la contestazione dell’esperienza sensibile si effettua in base a una confusione tra epistemologia e ontologia: i sensi possono ingannare, dunque si revoca qualunque autorevolezza anche ontologica all’esperienza sensibile’ (p. 51).

    A volte penso che il cospirazionismo sia il capolinea stravolto di un’ermeneutica che, col postmodernismo, ci avverte di non fidarsi delle apparenze, che la verità è più profonda o più laterale. Si ha paura delle superfici, insomma, come se affidandoci a queste fossimo noi stessi superficiali. Non si vuole capire che sono queste superfici, invece, a essere altamente informative, benché non esaustive. Che gli edifici non siano solitamente a forma di piramide rovesciata ci dice qualcosa sulla loro funzione, e quindi sul loro contenuto sociale.

    Cosa accomuna, nonostante differenze abissali di quoziente intellettivo e risvolti epistemologici, il giovane Wittgenstein quando afferma a un esterrefatto Russell che non possiamo essere certi che non ci sia un rinoceronte in aula, e Donald Trump quando afferma che gli immigrati haitiani si mangiano gli animali domestici?

    Wittgenstein e Trump si fidano di un senso più alto o profondo o persuasivo che il povero, bistrattato senso comune: la logica il primo – logica che prescinde dall’empiria – e la finzione il secondo – finzione che, di nuovo, prescinde dall’empiria, perché ne crea una alternativa, più avventurosa, essendo la realtà sensibile divenuta noiosa e deprimente da quando non si hanno più gli strumenti per guardarla e sentirla.

    Forse da qui viene il mio attaccamento ai poeti che scrivono “in analogico”, senza dimenticarsi del proprio sensorium: significativamente, il primo libro importante di Philip Larkin si intitola ‘The Less Deceived’, ‘Il meno ingannato’. Un poeta realista, dall’occhio fotografico, potrà sempre ingannarsi; ma gli inganni delle ricette ideologiche sono immensamente più grandi e pericolosi rispetto a una percezione opportunamente allenata.

  • 11# Insetto come carattere tipografico

    Un campo metaforico molto specifico ma non per questo non produttivo è quello che gioca sulla somiglianza visiva fra i caratteri stampati e gli insetti [+ NERO, + PICCOLO, + FORMA LONGILINEA]. Aveva attirato maldestramente anche me (‘refusi di falene’) ma meglio capire come viene gestito dai maestri. Queste tre occorrenze, che mi sono tutte care, vengono da Michael Hoffman, Alberto Nessi e Bartolo Cattafi:

    in summer,

    the thunderflies that came in and died on my books

    like bits of misplaced newsprint

    (Michael Hoffman, Between Bed and Wastepaper Basket)

    e sul giornale di ieri il tuo nome in grassetto

    come le zampe immobili di un insetto

    (Alberto Nessi, Ricordo di Emilio)

    la mosca ronza

    sulla parola mosca

    (Bartolo Cattafi, Mosca)

    Come si può vedere, la metafora INSETTO = CARATTERE TIPOGRAFICO è attiva nei tre autori, seppur con modalità diverse. In Hoffman e Cattafi il comparato sono gli insetti (trisanotteri e mosca, rispettivamente) e il comparante il livello tipografico della scrittura; in Nessi la relazione è inversa: sono i caratteri stampati il comparato, mentre l’insetto è il comparante. Hoffman e Nessi usano entrambi similitudini introdotte dal ‘come’; un’altra affinità sorprendente è il tema luttuoso dei loro versi: la morte dei trisanotteri (il disfacimento causato dall’estate?) in Hoffman, il necrologio di un amico in Nessi. In Nessi il rapporto è puramente metaforico-concettuale, mentre in Hoffman c’è anche contiguità fisica (e quindi possibile metonimia) fra comparato e comparante: gli insetti muoiono sui libri. In Cattafi sussiste solo contiguità fisica (e quindi drammatizzazione narrativa, come una piccola parabola), e la differenza fra i tratti semantici di insetti e caratteri stampati è posta in rilievo rispetto alle differenze: [+MOVIMENTO] per l’insetto (che ‘ronza’) ma [-MOVIMENTO] per la parola, che non vola dalla carta (viene in mente il detto ‘verba volant, scripta manent’). A ben vedere, la stessa opposizione semantica è attiva in Hoffman e Nessi, e se la morte è definita dall’assenza di movimento, ecco spiegati i riferimenti luttuosi in entrambi: la scrittura tipografica, nella sua immobilità e nel nero dell’inchiostro, ha infatti parecchio in comune con la morte.

  • 10# Tensione come discrimine fra posa e fedeltà

    Se una poesia, di qualsiasi tipo e affiliazione, non contiene un qualche tipo di tensione – nella situazione raffigurata, nelle soluzioni formali, nel dubitare vigorosamente di sé stessa, nello sporcare la bella forma senza idolatrare l’informe, nel mettere mine anche sotto il proprio nichilismo (qualora ci fosse), nel problematizzare la propria fiducia, nel mettersi alla prova durante il suo farsi – allora il discrimine fra fedeltà e posa si assottiglia pericolosamente: proprie di entrambe sono infatti la ripetizione nel senso più ampio (che sia di un habitus autoriale, di uno stilema, di un tema…), e cioè un senso di consistenza (nel senso di consistency) e riconoscibilità organica. Solo che nella fedeltà c’è necessariamente anche uno sbandamento, un modo e moto propulsivo nel riproporsi, tanto più necessario quanto più si vorrebbe mantenere la presa sul reale (sulle potenziali fonti nutritive del verso); nella posa invece la ripetizione riconferma il proprio sistema interno, è lo strumento per creare un prodotto anziché un proficuo nemico del processo.

  • 9# Contro il “profumo del caffè”

    Se una poetica deve essere fenomenologica, non bastano i referenti concreti o sensoriali; essi devono avere una specificità che faccia pensare alla singolarità del quotidiano, non alla sua schematizzazione. Il fantomatico ”profumo del caffè” sta alla neo-neo linea lombarda come i ”muti respiri dell’assoluto” stanno a Rilke. Entrambi i sintagmi, benché agli estremi del continuum tra mondano e trascendentale, tra low-mimetic e mythic insomma, sono egualmente esangui perché sganciati dalle rispettive esperienze che cercano di proiettare senza averle attraversate, e magari nemmeno lambite. Forse ”la tazzina sa dei chicchi che furono” funzionerebbe meglio.

    Ora, dopo aver letto la tesi di dottorato di Anezka Kuzmicova sulla imagery mentale, so dare a questo fenomeno una spiegazione che mi pare convincente: la studiosa – combinando fenomenologia e cognizione incarnata – asserisce che la percezione ‘dal vivo’ tende a essere molto più satura, esperienzialmente, rispetto all’immagine mentale che evochiamo quando ci danno un prompt decontestualizzato (per es. ‘pensa a una tazza di caffè’), il quale risulta appunto in una immagine schematica, o più precisamente immagine descrittiva di default (default description image) e non tridimensionale-interattiva, a meno che tale tazzina non venga inserita in un contesto senso-motorio e cinetico (per es ‘afferro la tazzina e una goccia mi ustiona’). Il profumo di caffè, etichetta generica, assomiglia a un prompt decontestualizzato.

    Ne consegue che ogni poeta che voglia aderire alla realtà fenomenica-esperenziale a tutto tondo, farebbe meglio a ritornare con intensità a quello che ha davvero esperito, alla Wordsworth, e trovarne l’equivalente linguistico-retorico (ricorrendo, per esempio, al focus descrittivo, noto come granularità nella linguistica cognitiva), piuttosto che ricorrere a locuzioni prefabbricate, perché appunto la percezione è più satura dell’immaginazione (nel senso di imaging, non di imagination) del fenomenico. Per parlare semplice: io posso scrivere quando voglio di ”una bottiglia rotta”, ma devo davvero aver visto (come mi è successo di recente) un tappo dorato un po’ piegato al centro per concepirne perfino l’esistenza, e desiderare di scriverne con una forza simile alla mia percezione esperienziale (e sua rielaborazione concettuale, fermo restando che separare percezione e concezione è artificiale, non lo si fa più da decenni nelle scienze cognitive – da cui l’idea dell’iperonimo ception). Mi risulta difficile combinare parole come in un tetris fino a ottenere un’immagine esperenzialmente sfaccettata, che preservi il più possibile l’impatto extra-linguistico della cosa. Questo mi sembra davvero un argomento dove la visione post-strutturalista del linguaggio come dimensione altra, irriducibile al dato reale, ci fa una magra figura.