Categoria: Poesia

  • 28# Simone Migliazza su “Doveri di una costruzione”

    Ieri Simone Migliazza ha pubblicato sul suo blog una delle migliori recensioni uscite su Doveri di una costruzione (Industria & Letteratura 2022): un vero e proprio attraversamento saggistico che riesce a essere informativo, analitico, e al tempo stesso partecipe delle ragioni profonde del libro, sintetizzandolo prima per poi articolare l’identità di ogni singola sezione, rivelandomi alcuni aspetti prima opachi o ignoti a me stesso. Mi verrebbe da dire che Simone – anche al netto di altre recensioni sue che ho letto di libri di Daniele Bellomi e Antonio Francesco Perozzi – è altrettanto bravo critico quanto poeta (leggetelo anche su quel versante!)

    Lo ringrazio dunque di cuore, sia perché non è scontato che, a oltre tre anni dalla pubblicazione, un libro di poesia trovi ancora lettori disposti a scriverne; sia perché Simone è soffermato su alcuni aspetti che, mi pare, erano stati lasciati un po’ in ombra nei contributi precedenti. Mi riferisco soprattutto al discorso sull’eros e sulle relazioni di coppia, che nei Doveri è piuttosto forte, e che mi sembra (magari mi sbaglio!) secondario se non esiguo in molta poesia recente. Ma anche al discorso sull’autenticità, di cui porto a casa, sottoscrivendola in pieno, questa osservazione tra le altre:

    “In Castiglione, l’insistenza sull’inautentico non produce nichilismo: al contrario, tradisce un’energia propositiva, un calore, un desiderio di contatto con una dimensione più autentica. Quando tale contatto si realizza — nell’amicizia, nell’apertura empatica, nel sentimento amoroso liberato dalla recita o nell’esperienza estetica — si manifesta una sorta di gioia della condivisione, un abbandono lirico all’esistenza, raro ma possibile.”

    Per leggere la recensione nella sua interezza, questo è il link.

  • 23# “Outgrow”: on the beauty of a word

    Quando voglio pensare a qualcosa di bello – e questa voglia di bellezza diventa tanto più prepotente quanto più ci si rifiuti di distogliere sguardo e mente da orrori, atrocità, soprusi, umiliazioni anche della verità – penso spesso a una parola. Questa parola è il verbo outgrow, bellissimo per struttura e significato, e mirabilmente usato da Derek Walcott in “Midsummer Tobago” – una breve poesia imagistica e di elenco nominale, venato di nostalgia: “days I have held / days I have lost, // days that outgrow, like daughters, / my harbouring arms”.

    Penso sia intraducibile. Il senso letterale di outgrow è spesso reso in italiano in modo analitico, e dunque ingombrante, con la locuzione “diventare troppo grandi per”. E subito viene in mente un genitore che rimprovera il figlio (“sei troppo grande per queste cose ormai”), e viene così del tutto meno la forza direzionale del crescere (grow) e del prefisso spaziale out-, emancipante. Una traduzione più morfologicamente e poeticamente vicina sarebbe “trascendere” (etimologicamente, “salire oltre”) – ma è troppo connotata spiritualmente e credo perda, nel senso e nell’intesa comune, la fisicità di outgrow. Meglio forse “tracimare” o “traboccare”, che però perdono la connotazione spirituale, fortissima in outgrow, che porta in sé anche quell’inesprimibile sentimento agrodolce di aver oltrepassato ciò che si era, i propri limiti precedenti e quelli del proprio ambiente di origine (o anche dell’ambiente acquisito dopo), in parte estraniandoseli.

    Outgrow è dunque terribile nelle sue connotazioni conflittuali, poste a metà fra trascendenza e alienazione, liberazione e addio. Proprio da questo senso, di perdita e sollievo, credo derivino le scelte antonimiche di Walcott (held, lost), poste in perfetta antitesi grazie al parallelismo versale.

    Amelia Rosselli ha famosamente impiegato “fuoriuscire” con tono tra implorazione e ingiunzione (“Cercatemi e fuoriuscite”), e forse “fuoriuscire” si avvicina ad outgrow, ma resta un po’ prezioso, perdendone l’assoluta pianezza linguistica. In una traduzione di “Midsummer Tobago” incrociata online il traduttore Alessandro Panciroli opta per “oltrepassare”, altra scelta sintetica interessante perché mantiene sia la struttura morfologica che il senso fisico e spirituale dell’andare, appunto, oltre. Però “oltrepassare”, così come “fuoriuscire”, implica un movimento orizzontale nello spazio, non un rigoglio multidirezionato del corpo e della mente che travalica i propri limiti precedenti, fattisi di colpo vecchi. Ecco, “travalicare”, altra scelta possibile, così come “eccedere” (forse la mia preferita, se non fosse per quell’eco normativa-legale che la irrigimenta) – ma, di nuovo, senza quella malinconia dell’ingombro, del lasciarsi indietro qualcosa, che sento come elemento integrante, anzi fondativo di outgrow.

    Il verbo outgrow suggerisce quindi una metamorfosi al tempo stesso di liberazione e di abbandono, come la farfalla che fuoriesce o trascende o eccede o oltrepassa la crisalide. Crisalide che era salvezza in quel suo involucro, ma che sarebbe diventata asfissia, condanna. Non è solo una questione traduttiva, non in senso stretto. Forse per me è autobiografica. Quando penso a una parola bella e che descrive elementi agrodolci della mia vita, outgrow è la parola che penso.

    When I want to think about something beautiful – a desire for beauty which becomes especially forceful once you refuse to avert your gaze and mind from horrors, atrocities, abuses, humiliations, including of the truth – I often think of a word. This word is the verb “outgrow”, beautiful in structure and meaning, and admirably used by Derek Walcott in “Midsummer Tobago” – a short, imagistic poem with a list of noun phrases tinged with nostalgia: “days I have held / days I have lost, // days that outgrow, like daughters, / my harbouring arms”.

    I think it is untranslatable in Italian. The literal meaning of “outgrow” is often rendered in Italian in an analytical and therefore cumbersome way through the expression “diventare troppo grandi per” (“to become too big for”). This immediately brings to mind a parent scolding their children (“you’re too big for these things now”), and thus completely loses the directional force of growing (grow) and the emancipating feel of spatial prefix out-. A more morphologically and poetically accurate translation would be “trascendere” (etymologically, “to rise above”) – but its spiritual connotation is overarching and renounces the physicality of “outgrow”. Perhaps “tracimare” or “traboccare” would be preferable, but these verbs lose the strong spiritual connotation of “outgrow” – which also, and crucially, carries with it that impalpable bittersweet feeling of having gone beyond what you were, beyond your previous limits and the limits of your original environment (or even the environment acquired later), partly estranging yourself in the process.

    “Outgrow” is thus unforgiving in its conflicting connotations poised between transcendence and alienation, liberation and farewell. It is precisely this oxymoric sense of loss and relief that is conducive to Walcott’s antonymous choices, placed in perfect antithesis by the parallelistic structure of the lines I quoted before.

    Italian poet Amelia Rosselli famously used “fuoriuscire” with a tone between imploration and injunction (“Cercatemi e fuoriuscite”), and perhaps “fuoriuscire” is close to outgrow, but it remains a little too high in tone, losing the linguistic plainness, even poverty of “outgrow”. In a translation of “Midsummer Tobago” that I found online, the translator Alessandro Panciroli opts for “oltrepassare” (= to go beyond), another interesting synthetic choice because it preserves both the morphological structure and the physical and spiritual sense of going beyond. However, “oltrepassare”, like “fuoriuscire”, implies a horizontal movement in space, not a multidirectional flourishing of the body and mind that transcends its previous limits, which have suddenly shrunk, becoming obsolete. Here, “travalicare” (to go beyond) is another possible choice, as is “eccedere” (to exceed) (perhaps my favourite, were it not for the normative-legal echo that stiffens it) – but, again, without that melancholy of encumbrance, of leaving something behind, which I feel is a fundamental element of “outgrow”.

    The verb “outgrow” suggests a metamorphosis both liberating and abandoning, like a butterfly that emerges from, transcends, exceeds or goes beyond its chrysalis. A chrysalis that was salvation in its shell, but which would have soon turned into suffocation, condemnation. It is not just a matter of translation, not in the narrow sense of the term. Perhaps for me it is an autobiographical issue. When I think of a beautiful word that describes some bittersweet elements of my life, “outgrow” is the first word that comes to mind.

    Initial translation from Italian by DeepL, followed by the author’s changes and revisions.

  • 21# Autenticità e poesia contemporanea: alcune riflessioni

    [Un paio di settimane fa, Le parole e le cose ha ospitato una mia riflessione su autenticità, lingua e responsabilità individuale in tempi sempre più bui, da fine 1938. Ringrazio di cuore Maria Borio e Laura di Corcia per l’invito, e più in generale per la tenacia e costanza con la quale hanno tenuto acceso il dibattito su questo concetto – che solo concetto non può e non deve essere. Riporto qui sotto i primi paragrafi; il testo intero lo trovate al link di sopra, o anche in formato pdf nella pagina Critica Militante del mio sito. Buona lettura]

    Non sono solito dare troppo peso all’etimologia delle parole, sia perché non ho una preparazione da filologo classico o da storico della lingua, sia perché è l’uso corrente semmai a interessarmi. Eppure, nel caso di autenticità mi sento di fare un’eccezione. L’etimologia di questa parola rimanda al greco αὐϑέντης, composto di autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): la definizione che se ne può estrapolare, “autentico è chi agisce secondo il suo vero sé”, ha la nettezza di una massima morale e consuona d’istinto con con riflessioni e sensazioni che vado attraversando da tempo. Questa definizione chiama in causa tre grandi sfere dell’esistenza: l’agire, cioè il comportarsi o la parte pubblica, sottoposta a scrutinio, del vivere; il vero, e con esso il presupposto che un vero esista e sia distinguibile da un non-vero; e il sé, ovvero qualcosa che ha a che fare con l’identità personale profonda, o meglio con la consapevolezza incrementale che un organismo ha di sé e della propria storia. Etica, verità e identità sono condensate in questa definizione come una novella trinità.

    È risaputo che ciascuna di queste sfere è stata messa radicalmente in crisi nel ventesimo secolo: scoperta dell’inconscio e dell’irrazionale, relativismi culturali, scuole del sospetto, ermeneutica verticale e costruttivismi vari hanno trasformato il mondo da un testo almeno parzialmente intelligibile a un groviglio di segni ingannevoli. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Maurizio Ferraris ripercorre le tappe principali di quest’attitudine facendola culminare nell’ossessione postmoderna di virgolettare ogni idea per distanziarsene ironicamente e scacciare ogni sentore di dogmatismo – o di fede.

    Oggi dovremmo renderci conto di quanto nociva quell’eredità sia stata e continui a essere per il discorso pubblico, e quindi per lo stesso vivere civile: ancora con Ferraris, “il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori” (Manifesto, p. 5). Ne è un esempio l’irresponsabile acrobatismo verbale per cui una guerra d’invasione imperialista viene riverniciata con l’eufemismo “operazione speciale”, e un plausibile genocidio in mondovisione con l’eufemismo “guerra”. La proposta del secondo Wittgenstein che sia l’uso, e non la denotazione, a stabilire il significato delle parole viene così grottescamente avverata. Recidere il legame fra le parole e loro denotazione equivale a privarle delle loro condizioni di verità – intesa qui come validazione intersoggettiva fondata sui dati d’esperienza e il più possibile estranea a preconcetti ideologici. La caduta delle condizioni di verità accelera il crollo della coesione sociale e dello scambio democratico che queste condizioni presupponevano e fondavano.

    (continua a leggere al link originale)

  • 20# Dall’inizio: o della poesia come dedizione infantile

    [Ripubblico, con minimi ritocchi, un mio contributo uscito oltre tre anni fa sulla rivista online L’Estroverso, per la rubrica Dall’inizio a cura di Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto. Credo sia leggibile come il prequel dell’intervento Mutevolezza, dramma e tensione relazionale che ho ripubblicato di recente qui. Avvertenza importante: il pezzo è del 2021. Avrei veramente scoperto la storia e la politica nel 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina. Quella è stata una cesura netta, aggravata ulteriormente dopo il 7 ottobre 2023, con il massacro compiuto da Hamas e lo sterminio continuato dei palestinesi a opera di Israele che ne è seguito. Buona lettura]

    All’inizio, quindicenne, m’incensavo esaminando alcune mie poesie in terza persona, rivolgendomi a me stesso per cognome, cercando di imitare le analisi delle liriche di Montale sui libri di testo del liceo. Utilizzavo spesso i campi archetipici della luce e dell’ombra, ma mi compiacevo nel mutarli di segno, come Baudelaire i suoi fiori: il buio che protegge e rivela, la luce che acceca e stecchisce gli insetti. In sostanza, trasfondevo nella scrittura in versi quella megalomania triste, forse non priva di tenerezza, di quando, alcuni anni prima, misuravo il diametro apparente del sole e della luna col righello, cercando improbabili formule; o di quando annotai su un quaderno un paradosso che mi parve farina del mio sacco, e che poi mestamente scoprii già essere stato formulato, oltre duemila anni prima, da Zenone. Ripetevo così in me stesso goffamente un’unghia di storia intellettuale e di civiltà già accaduta. Guardavo indietro senza sospettarlo. La stessa megalomania di quando disegnavo città dall’alto e cruscotti di automobili immaginifiche, o costruivo transatlantici e grattacieli con i lego. Ne è rimasta traccia nel mio secondo libro, Non di fortuna (Italic Pequod, 2017), e più precisamente nel poemetto Le bolle azzurre:

    Il via lo dava lo scroscio dei mattoncini a terra,
    cameretta diventava un cantiere toccato tutto insieme
    e avrei esplorato la perfezione dopo
    di un transatlantico, un castello, un grattacielo
    alto più di me.

    L’ossessione per la grandezza è un tratto infantile, intransitivo perché esclude o umilia l’Altro. Una manciata di versi dopo, infatti, il testo prosegue così:

    Mia sorella metteva situazioni in bocca
    a minutissimi inquilini; io “l’ho fatto io” dicevo.
    E non faceva che decrescere,
    mattone dopo mattone decresceva
    la casetta di mia sorella…

    «Io l’ho fatto io». La costruzione irradiava il mio ingegno, la mia ambizione, il mio ingombro. L’esserci, il voler restare al centro dell’attenzione, in un’infanzia e preadolescenza di relativo benessere materiale e di sicuro benessere affettivo. Non potevo allora, bambino, dare credito al più difficile e sottile talento di chi insufflava vita in personaggi per cui la casetta era un semplice mezzo per imitare la vita; non un fine, e meno che mai lo show di un architetto demiurgico. Solo molti anni dopo avrei capito che dare voce agli altri, entrare in prospettive sul mondo divergenti dalla propria, e in sostanza riportare in vita una poesia drammatica (nel senso teatrale e mimetico del termine) sarebbe stato un percorso fecondo, sprigionante tensione e dinamicità plastica, opposta alla fascinosa compostezza di un totem testuale intransitivo. Mia sorella aveva ragione. Nella poesia appena citata, avevo voluto allegorizzare questi due poli, sinistramente accostando il me bambino ai politici che, allora come oggi, promettevano un Ponte sullo Stretto anziché impegnarsi a mettere in sicurezza le scuole pubbliche o prevenire il dissesto idrogeologico.

    Al tempo stesso non mi è difficile riconoscere che questa ossessione per la grandezza ha creato terreno fertile per una forma di fedeltà, di perseveranza e concentrazione che credo abbia accompagnato da allora il mio fare versi. Questa ossessione non mi ha mai veramente abbandonato: ho vissuto, per esempio, il progetto di dottorato (2011-2015) con un fervore da crociato, e la sensazione che le 400 pagine della monografia che ne è venuta fuori fossero un frammento appena di una totalità pensata, di un possibile che non potrò mai scrivere. La mia distrazione o absent-mindedness che spesso mi si leggevano in viso, o per cui venivo ora bonariamente ora più seccamente redarguito, era forse il recto di quell’attenzione interiore, di quella dedizione rimasta infantile.

    I miei inizi, tra il 2000 e il 2001, quando facevo l’esegeta di me stesso perché nessuno avrebbe comunque ascoltato e capito, sono stati quindi intransitivi. Mancavano gli altri, il loro mondo mancava perché, semplicemente, non c’era spazio, e forse nemmeno vedevo un modello di socialità che potessi apprendere, non sentendolo istintivamente. Mai fatto parte di squadre di calcio o di pallacanestro, e delle partite dell’oratorio estivo (debole instradamento al cattolicesimo, dalle cui formule svuotate di vero rituale sempre mi sono sentito estraniato) ricordo più la polvere e il pallone che i rapporti di amicizia, inimicizia o indifferenza tra noi giocatori improvvisati. Costruire internamente e scrivere, allora. C’era altro da fare delle domeniche? mi chiedo citando Sereni, che avrei scoperto tre o quattro anni dopo. La provincia, una sterminata domenica, continuerei sostituendo a «domenica» il suo più calzante correlativo spaziale, cioè «provincia». La provincia alessandrina dei miei primi diciott’anni come un fantasma d’immobilità che torna a visitarmi ogni volta che avverto un luogo, una relazione o una forma poetica a rischio di esaurimento:

    Nel posto da cui vengo rimane a metà
    ciò che serve. Tra l’immobile rimane
    e i giri a cerchi ristretti,
    non densi. Non si pensi al caffè analogia facile ora che
    che svendono.

    Anche questa poesia viene da Non di fortuna, libro probabilmente imperfetto ma dove ho cercato di fare i conti con il mio passato (e dunque il luogo natio) in maniera meno episodica che in Per ogni frazione – mio esordio vòlto soprattutto alla scoperta presente, negli anni più solari dell’università pavese, segnati da incontri importanti. Eppure anche in Per ogni frazione si trova una poesia “dedicata” a Valenza e dove tuttora, come un moncone di me stesso, vive e invecchia la mia famiglia. La seconda parte di Valenze recita così:

    Piuttosto non c’è da permettersi
    rancore, né dolcezza all’incontrare le panche,
    gli asili e un grigio già oltre la provincia
    ma con il conforto di non essere città.

    «Ti ha visto nascere»
    muoverebbe a rimprovero un poeta, ma se manco
    dall’ignorarsi come scelta
    si è cominciato mai.

    Estraneità reciproca, incomprensione fra io e luogo, smarrimento esistenziale in forma sedata, crepuscolare come la provincia stessa. Possono sembrare solo topoi letterari, ma ogni topos autentico non è che la forma cristallizzata di sentimenti extra- e pre- letterari, di costanti antropologiche e sociali avvertite già nell’intimo dei corpi. Ancora da Per ogni frazione, dal poemetto Sensi della piazza:

    Piace autocitarsi negli abbracci
    alle coppie di sabato in sabato a un concerto locale,
    se non per rispetto alla piazza in ottemperanza di essa.
    «A presto, amo’», e all’appuntamento l’indomani si aspettano
    (Biblioteca Comune Duomo> un mezzo giro dall’altro, un tanto per confermarsi e smentirsi.

    Non devo vergognarmi se dico che il sostrato sociologico e parte di questo immaginario hanno più a che vedere con le canzoni degli 883 che con la cosiddetta cultura alta, di cui mi nutrivo discontinuamente e più per la capacità di formalizzare l’esistente che per gli esistenti che proponeva. Non ci sono state guerre nella mia formazione, non c’è stata la Resistenza, non ci sono stati il ’68 né il ’77, e durante la Guerra del Golfo avevo solo sei anni. Ci sono state le feste dell’Unità, ma come depoliticizzate, se è vero che ne ricordo appena le luci e i palloni, e al limite un senso generico e forse posticcio di comunanza a cui non hanno fatto seguito letture politiche – e meno che mai una militanza:

    «Basta! basta con…» intona il corteo un giorno (il concordato).
    Marcia come a inizio Novecento, si rifà nelle danze ai Sessanta.
    Mi sfila accanto, senza resistervi mi sarei immesso…
    ma né padroni né borghesi, l’altra parte oggi è invisibile;
    e mimarla, «selezionare oggetto di contestazione prego»,
    è stato (sottovoce) il mio modo di completare il coro.

    Se De Angelis in anni veramente politici poteva scrivere, per distanziarsene, «fuori c’è la storia, le classi che lottano», per me la storia era solo una materia scolastica da studiare. Sentivo una plastificazione della politica nei cortei scolastici, ero dispossessato. Perfino l’11 settembre 2001 non ha lasciato alcuna traccia nel diario che allora tenevo (come ho scoperto con shock l’anno scorso, sfogliandolo) e che pullulava invece di velleità teorico-poetiche, resoconti di gite scolastiche, infatuazioni adolescenziali. Non solo quell’evento terribile e decisivo arrivava schermato; ero io stesso uno schermo anestetizzato, compensavo una certa profondità interiore (qualunque cosa questa espressione significhi) con un torpore e un’inerzia notevoli, che la scrittura poetica come pratica di ascolto e apertura mi avrebbe negli anni insegnato a stemperare, e finalmente a bucare. Il senso di colpa per quella omissione sarebbe comunque riemerso, portandomi nel 2011 o 2012 a scrivere una poesia che allude all’11 settembre (di nuovo dalle Bolle azzure in Non di fortuna), ma da una prospettiva il più privata possibile, l’unica che mi fosse nota:

    cercavo l’acqua le dodici del dodici
    settembre il momento di confine l’acqua in bottiglia
    planavo piano col palmo per non rovesciarla
    farla mia non rovesciarla
    lei offerta lei indifesa mi ricorda no non
    si parte: per la cronaca è l’undici
    per me è il dodici ma è l’undici per me
    che cado in sonno solo in sonno e atterro
    liscio sul letto secondo fisica
    salvo sul letto secondo biologia

    Nonostante la mia scrittura proceda costantemente attratta dall’apertura, dal nuovo, dall’Altro, e anche se forse questa apertura si dispiega più compiutamente nelle raccolte inedite Doveri di una costruzione (2016-2021) e La parzialità dei molti (2018-in fieri), questo fantasma d’immobilità non viene mai del tutto meno, e anzi forse si fa paradossale carburante della scoperta e della sempre maggiore inclusività dei miei testi. Questo mi sembra particolarmente vero per questo passaggio dall’inedito La parzialità dei molti, scritto nel 2018 o 2019:

    Una mattina in sommessa ebollizione, un oggi che sento di volermi
    scoccare e incistarmi in mezzo agli slogan, alle fake news,
    un cristallino fatto stalattite che affondi voi, una buona volta,
    che squarci quel bar di paese dove per sempre mi sarei bloccato.
    Facilita il processo la luce bianca e moderata del sole baltico,
    sovente in odor di grigio ma ora no, laser che senza affocare svela.
    Sentirsi vivi ma frustrati per non esserlo di più, tenaci a giorni,
    a ore alterne, con piani di conquista da andar detti a mezza voce,
    al cinema sotto le stelle, tanto timidi e intimi e radical essi sono:
    un impero in divenire costruito su una nobiltà di sperperi,
    sul dono del confronto strappato al conto che langue, figura del
    poliedro senza vertice, io lo oppongo chiaramente all’altrui,
    chiaramente. Sono, in tanti siamo, proprio questo poliedro,
    questa rete per quanto taciturna e malmessa, e voi non la vedete.
    È la nostra politica, restare vicini anche se solo a strappi, morsi
    come siamo dal tempo e le distanze, ma voi non lo vedete.
    Ma voi chi, incalzate di rimando. Non so assegnarvi un viso,
    o almeno non sempre, è frustrante. Alcuni sareste amici miei,
    alcuni parenti, altri mi avrete fatto attraversare a un semaforo,
    altri avrò ordinato un bicchiere, altri non capisco che vi muove;
    altri mi apparite al plasma, e basta. Ma state in una piramide,
    questo sì. E la base abbruttita dal peso la terra di sotto abbruttisce,
    la terra degli ultimi per come mi è dato di intuirla dal plasma.
    Ho detto poliedro, ma potevo dire rosa, cerchi concentrici
    di un sasso lanciato senza odio, ragnatela al suo primo nascere.

    Torna «quel bar di paese dove per sempre mi sarei bloccato» al quale opporre i contatti umani sempre coltivati, un «restare vicini anche se solo a strappi», un vitalismo da «nobiltà di sperperi» attizzato dalla nuova posizione geografica (i paesi Baltici), lavorativa (membro organico di un’università) ed esistenziale. Questo passo, con cui mi sembra giusto chiudere questo svelarsi un po’ sbandato, lontano dal rigore a cui punto in veste di critico, è una fuga dalle radici che non sento di avere e che tuttavia non smetto di cercare, diviso fra il terrore delle sabbie mobili, dello stagno, e la mancanza di coraggio o l’incoscienza per abbracciare un nomadismo integrale, itinerante. «Non so scegliere, né rinunciare», avevo scritto nella prosa conclusiva di Non di fortuna, e non so quanto questa affermazione tradisca più indecisione o apertura. La mia scrittura credo stia qui, in una misurazione delle distanze e nella controspinta di una ricerca di contatto, nello sguardo analitico sull’esistenza e nella tentazione calda del flusso, del trascendere sé negli altri, nei loro «cerchi concentrici / di un sasso lanciato senza odio».

    29/06/2021-01/07/2021, Vilnius

  • 19# Mutevolezza, dramma e tensione relazionale: riflessioni sulla poesia

    [Circa un anno e mezzo fa, su La poesia e lo spirito sono apparse alcune mie riflessioni sulla poesia, come parte della rubrica La parola ai poeti. Così l’ha descritta il suo promotore Fabrizio Centofanti, che ringrazio per l’invito: “ogni autore può condividere la sua visione della poesia, l’esperienza di scrittura, le vicende umane legate all’ambiente e via dicendo. È un’occasione per conoscere e riconoscere, la sfida di condensare in un nucleo incandescente la propria idea e il proprio vissuto di poeti”. Le puntate precedenti e successive sono leggibili qui. Buona lettura]

    Negli anni mi sarò imbattuto in centinaia di definizioni o similari tentativi di accostare la poesia: in saggi, post, nelle stesse poesie a tema metaletterario. Robert Frost ha paragonato lo scrivere in versi liberi al giocare a tennis senza rete; per William Carlos Williams la poesia è una macchina di parole; Paul Valery, ci informa Valerio Magrelli in un’intervista, la associa addirittura alle feci[i]. E via dicendo. Mi fa sorridere ma non mi sorprende che sia così: di solito le definizioni tanto più proliferano – facendosi spesso metaforiche, idiosincratiche, diventando anzi un sottogenere letterario a sé stante – quanto più il fenomeno in questione appare sfuggente, eppure al tempo stesso centrale alla vita o alla vanità di chi tenta di circoscriverlo. Verrebbe da pensare alla sensazionale foto del buco nero Sagittarius A*, che non è in realtà una foto scattata direttamente ma una ricostruzione a posteriori ottenuta combinando i dati di otto telescopi sparsi nel mondo. Ma si tratterebbe di un’analogia fuorviante, perché a differenza di quelli veri, i nostri telescopi (poeti, saggisti, opinionisti, semplici lettori) non comunicano fra loro in maniera coordinata, e insomma non sembra possibile incrociare in un’immagine organica le migliaia di definizioni o suggestioni esistenti. Sarebbe inoltre un giochino retorico stucchevolmente postmoderno dire che la poesia è tutto quanto resta al margine di questa rete di definizioni o pseudo-tali.

    Parte di questa difficoltà fondativa ha carattere storico: come ricorda Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna (2005), la poesia nella modernità è passata dal designare un sistema di generi letterari a un’espressione esistenziale soggettiva che si presenta come atemporale e assoluta. Mazzoni fa partire questa modernità nel 1819, data di composizione dell’Infinito leopardiano. Da lì in poi, le poetiche del romanticismo, del simbolismo, del modernismo, fino agli espressivismi più recenti, rivendicano un’irriducibile soggettività, trovandosi attraversate da una scissione fra poesia e pubblico che Stéphane Mallarmé – secondo George Steiner, nel saggio On Difficulty – portò a compimento programmatico nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi una definizione che è sembrata calzante ha i caratteri paradossali di una non-definizione: «per bizzarro che possa sembrare, una buona definizione approssimativa della poesia contemporanea potrebbe essere la seguente: quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è stato)»[ii]. Ma se non è esclusiva, una definizione abdica alla sua funzione, e quindi alla sua stessa ragion d’essere. E qualcuno obietterebbe comunque che la poesia non è nemmeno un genere letterario. Come fare, allora?

    Per fortuna (mia), qui non mi viene richiesto un saggio, ma una declinazione parziale e soggettiva della poesia, basata sulla mia esperienza, liberandomi così dall’ansia di dover fornire un quadro condivisibile oltre me stesso. Posso pertanto reimpostare i termini della questione chiedendomi non cosa sia la poesia ma cosa faccia agli altri, e a me stesso in primis quale luogo unico e insostituibile della mia introspezione: spostandomi cioè dal piano essenzialista od ontologico, infinitamente problematico, a quello pragmatico e fenomenologico, più gestibile e spesso più onesto. Il passo ulteriore è quello di sostituire a «poesia» (concetto astratto, reso in inglese da poetry), l’insieme delle «poesie» (poems) che contano o hanno contato per me, incluse quelle che ho scritto: qui seguo la scia illuminista di un Giovanni Raboni, che significativamente intitolò una sua raccolta di recensioni e interventi La poesia che si fa. D’altronde, come è risaputo, il fare è già nell’etimo della poesia (poiein), e quindi per una volta fidarsi dell’etimologia e andare verso le origini – demiurgiche, artigianali? – del termine non sembra un vezzo da eruditi ma una mossa di buonsenso, di allineamento con l’esperienza vissuta.

    Siccome ho già scritto altrove[iii] delle origini della mia scrittura, dei suoi moventi psicologici e – se non suonasse pretenzioso – direi esistenziali, qui mi sembra più opportuno riflettere sui miei orientamenti estetici – che sono sempre al tempo stesso etici, rimandando a una maniera di abitare l’esistente. Io mi trovo a casa in quelle poesie che fanno intuire in filigrana la totalità intellettuale e sensuale di chi le ha scritte, e che cioè rimandano a una sensibilità tridimensionale e sfaccettata, ma al tempo stesso riconoscibile nella sua costanza e fedeltà; in poesie che invitano alla rilettura, e che sono cioè l’opposto delle confezioni semiotiche usa-e-getta, degli assemblaggi a freddo tanto di stampo (pseudo)lirico quanto (pseudo)sperimentale che proliferano oggi, dove sembra che chi scrive sia indifferente a ciò che ha scritto, e viceversa (parlo dell’io autoriale profondo, non di quello social). Prodotti insomma mai toccati dalla fede, dall’investimento e dalla ferita; e spesso estranei anche all’intelligenza compositiva, che non è semplice familiarità con le tecniche di scrittura, ma capacità e disciplina di trovare la forma al sentire e, lavorandola, acuire il sentire stesso. Questa totalità densa ma ospitale è in molti grandi poeti, è per esempio in Wallace Stevens, Marianne Moore, W. H. Auden, Philip Larkin, Seamus Heaney, Czeslaw Milosz, Eugenio Montale, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Franco Fortini, fino a Cristina Annino. La si percepisce nettamente anche in poeti-cantautori come Leonard Cohen e Fabrizio De André.

    In Notes Towards a Supreme Fiction, Wallace Stevens auspicava una poesia astratta (It must be abstract), mutevole (It must change) e in grado di dare piacere (It must give pleasure). Sono certamente d’accordo sugli ultimi due requisiti, mentre il primo potrebbe prestarsi a qualche equivoco: l’astrazione oggi fa pensare a qualcosa di alienato e non incarnato, di stilizzato perfino, mentre in Stevens l’invito, se lo comprendo bene, è verso un ordine superiore che tuttavia comprende ed esalta, anziché fustigarlo, il mondo sensibile. È però il secondo requisito, la mutevolezza, quello sul quale vorrei dire qualcosa in più, perché mi sembra il più ignorato e il più urgente. Oggi abbondano testi pseudopoetici che non cambiano (e non cambiano chi legge) dall’inizio alla fine: sono omogenei, dannati da subito, quasi che il codice genetico del primo verso avesse deciso come saranno tutti i versi seguenti. Non permettono di fare alcuna esperienza, visto che l’esperienza richiede una qualche forma di discontinuità che possa scolpirsi nei sensi e nella memoria. La brevità della maggior parte delle poesie è un’insidiosa alleata in questo stato di cose, perché è sulla lunga distanza che diventa necessaria, perfino inevitabile, l’articolazione di un pensiero e di una visione, dove quindi anche il detour, lo scarto, l’imprevisto, la sfumatura, acquistano peso. A proposito di sfumatura. Molta poesia oggi lascia poco o niente dopo la lettura perché in qualche modo replica in chiave estetica le polarizzazioni ideologiche (quasi sempre caricaturali e disinformate, fra l’altro) che caratterizzano il discorso comune, e che sono esplose con i social e soprattutto dopo la pandemia. Apprezzare le sfumature non è perdersi in cavillosità teoriche, ma avere allenato i sensi verso la molteplicità, e saper convivere con le ambiguità –altrui e proprie. C’è una frase bellissima di Jacques Sindral citata in Principles of Literary Theory, del grande critico I. A. Richards, che dice così: «si passa più facilmente da un estremo all’altro che da una sfumatura all’altra». Ecco, se c’è una frase che riassume lo sconfortante stato di cose presenti, è questa.

    Scendendo a un livello più concreto di mutevolezza, mi attirano – e tendo a scrivere – le poesie che, come dei microdrammi, mettono in scena tensioni relazionali di vario tipo. A livello linguistico, è l’assetto pronominale a sostenere un progetto del genere. Molte poesie oggi hanno i verbi noiosamente tutti alla prima persona, e il tu al massimo è evocato come innocuo fantasma-destinatario, nella più esausta tradizione lirica. Sembra che manchino la flessibilità e la freschezza per slittare da un pronome all’altro, in ciò facendo un torto alla realtà della vita, che è relazionale e non monologico-intransitiva. Mi limito a un paio di esempi: Sereni, all’inizio della Pietà ingiusta, negli Strumenti umani, scrive «mi prendono da parte, mi catechizzano». In poche parole abbiamo un assetto dove l’io è assediato da un ‘essi’ non identificato. Gli altri ci sono sin da subito, e se l’io ha una qualche identità, essa è inscindibile dall’azione altrui, essendone anzi il paziente semantico. Analogamente, in Smentire il bianco (Arcipelago Itaca 2023), notevole libro d’esordio di Silvia Patrizio, leggiamo in una poesia dedicata a Maria Maddalena i seguenti versi: «se la sua vita è tutto e la tua / un accanto». Qui abbiamo una triangolazione deittica: l’io lirico si rivolge a un tu specifico, quello di Maria Maddalena (un tu interpretabile anche come auto-riferito), ma nello stesso verso si allude a Gesù di Nazareth, la terza persona dietro quel «sua». Le due figure sono prossime, ma il contrasto valoriale fra le loro vite, lessicalizzato rispettivamente in pronome indefinito e avverbio di luogo sostantivato («tutto» vs. «un accanto») sembra scavare uno iato incolmabile e, appunto, drammatico.

    Ecco, le poesie sono vive quando rivelano delle tensioni, e il mezzo per animarle è il dramma. Il bisogno di dramma è in ultima analisi un bisogno di vigilanza, di sorveglianza, una resistenza al livellamento portato dalla saturazione di stimoli effimeri a cui siamo sottoposti e a cui ci sottoponiamo ogni giorno. Le tensioni, o crisi vere e proprie, consentono di approfondire il Sé, poiché questi si conosce solo nel prisma che sono gli altri, per riprendere il titolo di un libro di Paul RicoeurSé come un altro. Per inciso, ragionare in termini di Sé, indebolirebbe le sempiterne polemiche contro l’Io o l’Ego; polemiche che sembrano fare leva su un argomento fantoccio che stravolge un fenomeno fino a renderlo irriconoscibile, semplificandolo per poterlo poi meglio attaccare. E semplificare vuol dire, per l’appunto, omettere le sfumature. L’Io non è per forza e soltanto una narcisistica soggettività borghese, ma può essere uno spazio attraversato da un sé relazionale, e quindi un microcosmo del mondo, un’argilla di tutti gli incontri e gli scontri di cui è stato testimone e complice.

    Concludo mettendo alla prova queste riflessioni con una poesia inedita, parte di un progetto che intende rivisitare criticamente la mia infanzia e adolescenza nell’alessandrino, nonché il contesto storico-sociale in cui questa si inserisce. Lascio a chi legge giudicarne non solo l’eventuale riuscita, ma l’aderenza rispetto a quanto ho espresso fin qui.

    La minaccia

    Sul campo da tennis, distesa, la replica di King Kong
    non finiva più. Mi stringevo a mio padre, e alla ringhiera:
    quel pugno umiliò elicotteri, li dissolse nel lungo pelo.
    E se ora, da fermo che era, si gonfia a lenzuolo il torace?

    Certi scenari eccitavano. Però, a una certa, si è scarichi.
    Caffè in tazze di plastica con bordo doppio, quindi.
    «Pare una cazzatina questo bordino, e invece…
    chi l’ha inventato, avrà fatto i miliardi».

    Non sapevo se essere d’accordo con mio padre;
    se eravamo una specie esaltata dalla grana
    e dall’ingegno, o dalla furia per conto terzi.
    Il candore intorno indorava ogni cosa,

    non faceva eccezione l’odore di sopruso
    pesante sul pianeta, le bisce sotto le piante
    dei piedi essiccate. Il verbo sciogliersi suggeriva
    al più amore casto, scarpe coi lacci, cono gelato.

    Vilnius, 11-12/09/23

    [i] Valerio Magrelli, La poesia è un’Urgenza. Intervista di Grazia Calanna. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/valerio-magrelli-la-poesia-e-unurgenza/

    [ii] Tommaso Di Dio, Poesie dell’Italia contemporanea (1971-2021), Milano, Il Saggiatore, p. 9.

    [iii] Davide Castiglione, Dall’inizio. «L’estroverso». https://www.lestroverso.it/dallinizio-davide-castiglione/

  • 14# Lirismo che dimentica il mondo

    2–3 minuti

    L’effetto spesso lezioso o pretenzioso di tanto diffuso lirismo deriva da un desiderio di sintesi che in realtà non è condensazione di vissuto, ma sua mutilazione: ci si illude, cioè, di attingere al sublime non per una via d’ascesi che parta dall’ascolto e dall’attraversamento del sensibile e della propria psiche (come, massimamente, in Emily Dickinson) ma per via diretta, come se si fosse graziati da una privilegiata telepatia con l’iperuranio. I risultati sono quasi sempre poverissimi, plastificati, proprio perché spogliati da ogni attrito della vita fenomenologica, che è anche sangue, sudore, attrito. Purificazione non per fuoco, dunque, ma igiene schifiltosa, anche latamente violenta.

    Dimostro questo assunto partendo da due versi del poeta cubano Antonio José Puente. Sono due versi che amo molto e mi porto dietro da anni. Sono tratti dalla poesia Sei minuti di conversazione con l’estero, nell’antologia di poesia cubana L’isola che canta, che recensii oltre dieci anni fa qui.

    “ci siamo assottigliati fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    Nella poesia, questa clausola è l’amara realizzazione del poeta, che avverte la sopraggiunta estraneità nei confronti dell’ex amata: una situazione in cui molti di noi si saranno trovati, quando il legame sentimentale si scioglie, ma perdura comunque un rapporto cordiale. Il “chiedere del clima” è il classico esempio di small talk che si fa con gli sconosciuti, e qui indica estraneità e imbarazzo. L’assottigliamento è un appiattimento, e il lettore può solo immaginare l’entità del tutto diversa delle conversazioni fra i due amanti in tempi migliori. Trovo questi versi molto riusciti non solo perché intercettano una regione emotiva complessa con economia di mezzi, ma anche perché la rendono palpabile, immettendola nella situazione della telefonata.

    Imitando il poetese dominante, è possibile piano piano rovinare la bellezza di questi versi in maniera graduale ‘mutilandoli’ secondo una derivazione che conduca a un lirismo più astratto, cioè decontestualizzato. Ecco come:

    1. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci / che chiedono del clima”

    (un po’ piu’ lirico – sparisce l’ancoraggio deittico del passato prossimo in favore di un presente astorico, assoluto – la situazione è ciclica, perpetua, irreversibile dunque)

    2. “ci assottigliamo fino a divenire queste voci”

    (piu’ lirico ancora – sparisce la relativa di circostanza)

    3. “ci assottigliamo fino a queste voci”

    (piu’ scorciato-ellittico, la proposizione finale diventa un semplice sintagma)

    4. “ci assottigliamo fino alla voce”

    (cade l’ancoraggio del deittico di prossimità “queste”, la voce si fa grammaticalmente singolare e dunque diventa un concetto astratto”, non piu’ legato a una conversazione specifica; le voci perdono la grana timbrica che potevamo immaginare)

    5. “l’assottigliarsi fino alla voce”

    (cade il “noi” in favore della forma impersonale, l’umano è finalmente estromesso in puro evento esterno)

    Ecco, molta poesia d’oggi pratica le soluzioni 3, 4 o 5, anziché l’originale o le sue versioni leggermente liricizzate, 1 e 2. Non c’è da stupirsi: la sospensione della realtà ‘sporca e cattiva’ è tornata in voga almeno dal postmoderno, e adesso la stiamo pagando tutta nei negazionismi e nelle manipolazioni che ci stanno intorno. La poesia resa astratta ne è appena uno dei sintomi, rumore di fondo nell’egemonia del puramente verbale.

  • 11# Insetto come carattere tipografico

    Un campo metaforico molto specifico ma non per questo non produttivo è quello che gioca sulla somiglianza visiva fra i caratteri stampati e gli insetti [+ NERO, + PICCOLO, + FORMA LONGILINEA]. Aveva attirato maldestramente anche me (‘refusi di falene’) ma meglio capire come viene gestito dai maestri. Queste tre occorrenze, che mi sono tutte care, vengono da Michael Hoffman, Alberto Nessi e Bartolo Cattafi:

    in summer,

    the thunderflies that came in and died on my books

    like bits of misplaced newsprint

    (Michael Hoffman, Between Bed and Wastepaper Basket)

    e sul giornale di ieri il tuo nome in grassetto

    come le zampe immobili di un insetto

    (Alberto Nessi, Ricordo di Emilio)

    la mosca ronza

    sulla parola mosca

    (Bartolo Cattafi, Mosca)

    Come si può vedere, la metafora INSETTO = CARATTERE TIPOGRAFICO è attiva nei tre autori, seppur con modalità diverse. In Hoffman e Cattafi il comparato sono gli insetti (trisanotteri e mosca, rispettivamente) e il comparante il livello tipografico della scrittura; in Nessi la relazione è inversa: sono i caratteri stampati il comparato, mentre l’insetto è il comparante. Hoffman e Nessi usano entrambi similitudini introdotte dal ‘come’; un’altra affinità sorprendente è il tema luttuoso dei loro versi: la morte dei trisanotteri (il disfacimento causato dall’estate?) in Hoffman, il necrologio di un amico in Nessi. In Nessi il rapporto è puramente metaforico-concettuale, mentre in Hoffman c’è anche contiguità fisica (e quindi possibile metonimia) fra comparato e comparante: gli insetti muoiono sui libri. In Cattafi sussiste solo contiguità fisica (e quindi drammatizzazione narrativa, come una piccola parabola), e la differenza fra i tratti semantici di insetti e caratteri stampati è posta in rilievo rispetto alle differenze: [+MOVIMENTO] per l’insetto (che ‘ronza’) ma [-MOVIMENTO] per la parola, che non vola dalla carta (viene in mente il detto ‘verba volant, scripta manent’). A ben vedere, la stessa opposizione semantica è attiva in Hoffman e Nessi, e se la morte è definita dall’assenza di movimento, ecco spiegati i riferimenti luttuosi in entrambi: la scrittura tipografica, nella sua immobilità e nel nero dell’inchiostro, ha infatti parecchio in comune con la morte.

  • 10# Tensione come discrimine fra posa e fedeltà

    Se una poesia, di qualsiasi tipo e affiliazione, non contiene un qualche tipo di tensione – nella situazione raffigurata, nelle soluzioni formali, nel dubitare vigorosamente di sé stessa, nello sporcare la bella forma senza idolatrare l’informe, nel mettere mine anche sotto il proprio nichilismo (qualora ci fosse), nel problematizzare la propria fiducia, nel mettersi alla prova durante il suo farsi – allora il discrimine fra fedeltà e posa si assottiglia pericolosamente: proprie di entrambe sono infatti la ripetizione nel senso più ampio (che sia di un habitus autoriale, di uno stilema, di un tema…), e cioè un senso di consistenza (nel senso di consistency) e riconoscibilità organica. Solo che nella fedeltà c’è necessariamente anche uno sbandamento, un modo e moto propulsivo nel riproporsi, tanto più necessario quanto più si vorrebbe mantenere la presa sul reale (sulle potenziali fonti nutritive del verso); nella posa invece la ripetizione riconferma il proprio sistema interno, è lo strumento per creare un prodotto anziché un proficuo nemico del processo.

  • 9# Contro il “profumo del caffè”

    Se una poetica deve essere fenomenologica, non bastano i referenti concreti o sensoriali; essi devono avere una specificità che faccia pensare alla singolarità del quotidiano, non alla sua schematizzazione. Il fantomatico ”profumo del caffè” sta alla neo-neo linea lombarda come i ”muti respiri dell’assoluto” stanno a Rilke. Entrambi i sintagmi, benché agli estremi del continuum tra mondano e trascendentale, tra low-mimetic e mythic insomma, sono egualmente esangui perché sganciati dalle rispettive esperienze che cercano di proiettare senza averle attraversate, e magari nemmeno lambite. Forse ”la tazzina sa dei chicchi che furono” funzionerebbe meglio.

    Ora, dopo aver letto la tesi di dottorato di Anezka Kuzmicova sulla imagery mentale, so dare a questo fenomeno una spiegazione che mi pare convincente: la studiosa – combinando fenomenologia e cognizione incarnata – asserisce che la percezione ‘dal vivo’ tende a essere molto più satura, esperienzialmente, rispetto all’immagine mentale che evochiamo quando ci danno un prompt decontestualizzato (per es. ‘pensa a una tazza di caffè’), il quale risulta appunto in una immagine schematica, o più precisamente immagine descrittiva di default (default description image) e non tridimensionale-interattiva, a meno che tale tazzina non venga inserita in un contesto senso-motorio e cinetico (per es ‘afferro la tazzina e una goccia mi ustiona’). Il profumo di caffè, etichetta generica, assomiglia a un prompt decontestualizzato.

    Ne consegue che ogni poeta che voglia aderire alla realtà fenomenica-esperenziale a tutto tondo, farebbe meglio a ritornare con intensità a quello che ha davvero esperito, alla Wordsworth, e trovarne l’equivalente linguistico-retorico (ricorrendo, per esempio, al focus descrittivo, noto come granularità nella linguistica cognitiva), piuttosto che ricorrere a locuzioni prefabbricate, perché appunto la percezione è più satura dell’immaginazione (nel senso di imaging, non di imagination) del fenomenico. Per parlare semplice: io posso scrivere quando voglio di ”una bottiglia rotta”, ma devo davvero aver visto (come mi è successo di recente) un tappo dorato un po’ piegato al centro per concepirne perfino l’esistenza, e desiderare di scriverne con una forza simile alla mia percezione esperienziale (e sua rielaborazione concettuale, fermo restando che separare percezione e concezione è artificiale, non lo si fa più da decenni nelle scienze cognitive – da cui l’idea dell’iperonimo ception). Mi risulta difficile combinare parole come in un tetris fino a ottenere un’immagine esperenzialmente sfaccettata, che preservi il più possibile l’impatto extra-linguistico della cosa. Questo mi sembra davvero un argomento dove la visione post-strutturalista del linguaggio come dimensione altra, irriducibile al dato reale, ci fa una magra figura.

  • 8# Contro il panottico del macrotesto?

    L’idea centrale, la tesi fondante, la coesione, la progettualità in un libro di poesia. Benedetti argini contro il dilettantismo, certo, indici di serietà e impegno, di direzione della propria ricerca, ibridazione con i modi continuati del romanzo e del saggio, prodotto editoriale più solido e spendibile. Ma anche, forse, garanti di una riconoscibilità troppo imprestata, delocalizzata, imposta dall’alto sulla materia (e lo sguardo) che vi si devono adeguare. E che quindi possono stornare l’attenzione di chi legge dal giusto onere di fermarsi su ogni verso, di sentirne la vibrazione, sempre che ci sia. Soprattutto, di apprezzare il verso e il testo in quanto tali, per il loro peso specifico, senza per forza assoggettarli al macrotesto, senza farne vassalli di un macrocosmo. Al di là e direi molto prima della tenuta, del progetto, dell’ambizione, c’è il singolo verso come gesto istintivo irriducibile, miracoloso individuo del momento che il poeta farebbe bene a non ingabbiare o reprimere nel suo disegno complessivo, nel suo panottico.

    A soffrire di questa impostazione, cioè dell’intenzionalità dimostrativa o monolitica (alla peggio brandita come marchio di fabbrica tematico o formale), non è tanto la spontaneità (che è un mito), ma piuttosto l’individualità del testo singolo, che come una persona dovrebbe (potrebbe) essere un organismo irripetibile, dato da risultanti accidentali, non ripercorribili. Rispetto al libro di poesia, la raccolta (io direi l’aggregato) consapevole rinuncia al controllo demiurgico, lascia che i vari attori – le poesie – si contaminino secondo rispondenze più umorali che seriali, perché in fin dei conti una certa imprevedibilità rapsodica registra meglio una certa disposizione d’apertura, di riconoscimento di un saggio limite sulla nostra ansia di controllo.

    Il macrotesto troppo strutturato assomiglia all’alienazione: alla censura delle proprie stesse spinte non allineate da un lato, e a una patente o cartellino sociale da esibire dall’altro. Riflessioni che mi vengono non solo pensando a libri e prove recenti, ma anche a un illuminante commento critico che lessi molti anni fa e che, in sostanza, legava la minor riconoscibilità (la maggior variabilità) del modus di William Carlos Williams rispetto a quello di Wallace Stevens (autore che pure amo) proprio all’abbracciare, da parte del primo, una logica di minore antagonismo, di distensione, di disponibilità a essere plasmati dall’esperienza prima ancora che a plasmarla.