Non occorre andare a funghi per imbattersi nelle famigerate ‘poesie del sottobosco’ – basta scorrere la propria Facebook homepage. Se non ne vedete o siete voi stessi autori delle stesse, oppure siete più selettivi del sottoscritto nell’accettazione delle amicizie.
Per non rendere tali poesie del tutto inutili, propongo un semplice esperimento di natura deduttiva (uno specialista dell’informatica potrebbe ricavarci un algoritmo):
Fate caso alle poesie postate su facebook dai vostri contatti e osservate come sono scritte:
1. ci sono metafore genitive o analogie preposizionali (‘X di Y’) sistematicamente ripetute, tipo ‘le stanze del perdono’? 2. plurali generici di parole spesso astratte o archetipiche (luce, ombra, tempo, silenzio)? 3. il titolo dà già la chiave del contenuto? 4. ‘versi’ quasi sempre sotto le otto, nove sillabe, ungarettiani? 5. grande riluttanza a usare gli articoli? (per es. ‘sono tempesta su deserti…’) 6 insistita anteposizione dell’aggettivo al sostantivo? (‘incarnata solitudine’) 7. magari la parola ‘parole’ a fine verso? (‘cose’ è camp, ‘parole’ è kitsch… d’accordo, quest’ultimo punto è un sassolino che mi volevo togliere) 8. assoluta mancanza/assoluto sovraffollamento di ‘io-tu-io-tu’ (deissi personale)?
Se la risposta è si’ ad almeno 5 di questi 8 punti, siete al 95% davanti a una poesia del sottobosco (quel 5% restante sarebbe una sua geniale parodia, o il lavoro di un autore altrimenti geniale). Dimostratemi di avere torto.
NB: il sottobosco può finire su Einaudi, non viene più definito esclusivamente dalla sua natura ‘sommersa’.
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