Su un verso di Luzi

Mentre si parla, si è parlato e si parlerà delle sorti della poesia, del sistema poesia, io voglio rintanarmi nell’atomo compositivo. Ci si ricorda a volte di poesie intere, ma più spesso sono frammenti che s’incastonano nella memoria. Così per qualche motivo mi torna spesso in mente un verso di Mario Luzi, “entri nei miei pensieri e n’esci illesa”. Il verso viene da una poesia piuttosto nota, Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (da Primizie del deserto, 1952). La poesia si può leggere per intero su vari siti, come qui.

Non è un caso che a lasciarsi ricordare sia una proposizione, visto che questa è l’unità principe della lingua in generale, una unità con più sostanza psicologica rispetto a una parola o un sintagma. Ma cos’ha di speciale? Non tanto o solo l’andamento ritmico, ché tutta la poesia è composta di endecasillabi. Né strategie retoriche di forte letterarietà che oggi mostrano la loro alta impraticabilità (nella stessa poesia, l’inversione + iperbato “di gelsomino odorano e di frane”, un verso che una decina d’anni fa mi avrebbe attratto terribilmente). Né il fatto che conferisca agenza all’essere pensato, perché la stessa stringa o meglio collocazione “entri nei miei pensieri”, malgrado la metafora concettuale sottostante (I PENSIERI SONO STANZE, LUOGHI CHIUSI), si ritrova tranquillamente, per esempio, in questo forum al femminile (http://amore.alfemminile.com/forum/e-normale-che-quel-ragazzo-entri-nei-miei-pensieri-nei-momenti-di-intimita-fd4286890). Il che, semmai, attesta la modernità dell’emistichio, il suo essere parte di una lingua comune.

Il segreto della memorabilità di questo verso, secondo me, sta in quel “e n’esci illesa”. Non solo o non tanto per il rinforzo fonico della rima (“sospesa” due versi prima). Ma, maledizione, per le sue implicazioni psicologiche, ideazionali. Per il fatto che possiamo immaginare la delicatezza dell’io che pensa l’amica, senza stravolgerla sia pure nei suoi pensieri, cioè nella sfera dove pure potrebbe avere assoluto dominio – dove potrebbe umiliarla, distruggerla, sfigurarla, ucciderla. A mio parere oggi tendiamo a dimenticarci, quando scriviamo, di questo livello sottostante, che porta insieme world knowledge (lo scrivo in inglese ché l’italiano “conoscenza del mondo” è troppo altisonante, mentre in inglese è un termine del tutto descrittivo – c’è differenza fra ‘world knowledge’ e ‘knowledge of the world’ infatti) ed empatia, il leggere nella mente (mind-reading) dell’io poetico che ci rende così partecipi dei propri processi mentali. Ne usciamo elevati, con un’aria alta. Questo permette al verso di accompagnarci più a lungo rispetto alla semplice fascinazione fonica o retorica, che restano tutto sommato in superficie e sono sempre a rischio di virtuosismo. Far entrare questo livello in quello che scriviamo è forse l’unico modo per difenderci dall’epigonismo, dal bello stile (che può anche essere brutto e cattivo, freddo, maledettista, espressionista ecc., e bearsene). Si resta negli altri, forse, rendendosi un po’ più trasparenti.

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