[Post originariamente pubblicato su facebook il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Joe Biden. La mia analisi è soprattutto di ordine stilistico, e cerca di capire la relazione tra forma e immediato contesto di ricezione. Per un taglio più culturalista e contestuale, vi invito prima a leggere le belle riflessioni sul sito di Marco Bini sullo stesso argomento]
Desidero riprendere uno spunto recente di Mario De Santis circa la poesia che Amanda Gorman ha letto alla cerimonia di inaugurazione di Jo Biden. Semplificando, De Santis vede chiaramente i limiti di una tale poesia secondo l’ottica della tradizione ‘alta’ europea (che rifugge questo ‘noi affermativo e retorico di chi crede nella ‘verità”), ma al tempo stesso si interroga sulla liceità di questi ‘occhiali’, dato che – parole sue – nel testo di Gorman ‘La forza della lingua attingeva in altre profonde o sacre o magiche “phonè” che non sono quelle europee della sibilla greca, della voce del Dio biblico, dell’Io Penso’. Roberto Minardi, in una telefonata recente, mi parlava proprio della difficoltà di noi europei ad apprezzare compiutamente tradizioni ‘altre’ (lui faceva riferimento a quella latino-americana, che a noi sembra troppo naive, spontaneista, e che però assume piena forza nel suo contesto originario). Anche i bei post di Marco Bini e Francesco Terzago concordano sulla valenza politica e sulla pregnanza utopica di tale performance, al di là del discutibile (dal nostro punto di vista) valore letterario del testo.
Io da tecnico, non troppo a mio agio nei discorsi su cultura e ideologia, mi limito a qualche considerazione formale sulla poesia. Anzitutto, è una poesia? Sì, nella misura in cui si presenta e si identifica come tale: rime, alliterazioni e parallelismi non mancano. Se, come ho scritto tempo fa in un post, la poesia ha formalizzazione e significanza, il primo elemento non manca, anche se si tratta di una formalizzazione ‘di superficie’ che non rimodella il mondo che conosciamo, ma si limita a riutilizzare certi schemi e tropi (vd. gli 11 punti elencati sotto). Nemmeno il secondo, a dire il vero: ma la ‘significanza’ qui è pragmatica (valore d’uso di quelle parole in quella situazione), piuttosto che semantica (valore estetico-conoscitivo della rappresentazione stessa), ed è la stessa, insomma, di un discorso (speech). Come i discorsi (nel senso di speeches, non di discourses), sono fortemente dominanti certi tratti stilistici:
1. Noi collettivo, con funzione coesiva (a differenza del ‘noi’ duale o paucale), contro lo schema del noi vs. loro tipica di altre retoriche
2. Metafora concettuale GOOD IS UP, che si concretizza nell’ascesa sulla collina (pensate a Dante che sale il Purgatorio, o al sentirsi ‘su’ di morale). Qui assume particolare pregnanza perché Capitol Hill, luogo dell’insediamento e simbolo della democrazia, include la parola ‘collina’. Devo a Marco Bini l’ulteriore osservazione che, parole sue, ‘la “città sulla collina” è una radicatissima metafora, di matrice bianca e puritana, dell’eccezionalismo americano’.
3. Possibile riferimento intertestuale alla celebre ‘Still I Rise‘ di Maya Angelou (la parola chiave ‘rise’ è in entrambe), testo-simbolo del riscatto sociale e della determinazione della popolazione afroamericana (e delle altre minoranze).
4. Allitterazioni (we have braved the belly of the beast), talvolta quasi paronomastiche (weathered and witnessed, entrambi bisillabi, con implicita equivalenza semantica fra il superare le difficoltà e l’essere testimoni, presenti, o blunders–burdens) o da falsa figura etimologica (harm–harmony) potenziata da opposta connotazione semantica.
5. Rime interne per l’occhio (purpose-compose)
6. Metafore in apparenza improbabili (gold-limbed hills: colline dalle gambe dorate), che si spiegano come elaborazione del tropo TERRA E’ DONNA (vd. anche Guccini, dove Bologna ha il seno sul piano padano ed il culo sui colli – elaborazione del tropo di cui sopra nel tropo CITTA’ E’ DONNA).
7. Antonimi trattati come equivalenti grazie alla struttura coordinativa e all’allitterazione, in una specie di ossimoro analitico (battered and beautiful)
8. Rime ‘maschili’ (cioè con ictus sull’ultima sillaba), più impattanti: might/right, chest/west (si noti la loro pregnanza semantica)
9. Riferimenti biblici (wine and fig tree) che simboleggiano forza e comunità.
10. Uso di conoscenze generiche, schematiche ancorché vere (a skinny black girl / descended from slaves), senza gravami aneddotici o enciclopedici
11. Uno stile di recitazione chiaro e incisivo: si noti l’intonazione ascendente su we, quella rallentata e scandita su now we assert, o la dizione veloce, esaltata, impaziente, in corrispondenza dell’anafora topica we will rise (con la videocamera che iconicamente punta in alto, per riprendere la bandiera americana).
Insomma, il mestiere c’è, anche se per chi è addentro alla poesia questi sono in massima parte ‘cheap tricks’, effettistica, e il testo è – come ogni buon discorso – ideato espressamente per lo scopo. Mi piace? No, perché sacrifica la sfumatura, la problematizzazione, perché non porta accrescimento esperienziale-cognitivo. Ma parlo con in mente altri poeti, con quel bagaglio europeo richiamato dal post di De Santis all’inizio. Faccio ammenda, prima di chiudere il post, ricordando(mi) che la mia seconda ‘poesia’ di sempre, scritta a 13 anni, era simile a questa in tono, e l’avevo scritta nella speranza di rimediare una lite in famiglia. Quella poesiola esteticamente orribile e pietosa (iniziava con ‘Dimmi, perché barrichi il tuo cuore / dietro a un lucchetto?’ – tutti i meccanismi del pathos melodrammatico, insomma), aveva però un suo perché contingente. Mi chiedo se, con le dovute proporzioni, non si possa dire lo stesso di questa ”The Hill We Climb”.